martedì 4 ottobre 2016

Profumo di caffè


Racconto
di Valeria Giovannini

Uscivo molto presto, la domenica mattina. La casa di mio nonno distava alcuni chilometri che percorrevo a piedi lungo file di viali alberati. Radunavo i miei pensieri. E poi li liberavo in aria come palloncini colorati. Assaporavo ogni sensazione.
Il calpestio dei passi lievi. I suoni delle campane si rincorrevano dagli angoli della piccola cittadina in cui abitavo.
Giungevo davanti a un imponente condominio bianco e grigio, pigiavo il citofono e salivo piano le scale. I gradini dell’ultima rampa davanti alla porta dell'appartamento del nonno erano prodigiosi. Sprigionavano il profumo del caffé appena preparato. E mi fermavo qualche istante a respirarlo, prima di varcare la soglia. Il nonno mi aspettava, puntuale, come solo i vecchi sanno essere. Hanno imparato che ogni minuto è prezioso. Il nostro rito della domenica. Era un uomo di altezza media, magro, bianco di capelli. Aveva un sorriso contagioso e vitale che scaturiva dagli angoli più remoti del cuore e riempiva tutto il suo essere. Era impossibile restare indifferenti al suo sorriso. Emozionava nel profondo, come uno squarcio di sole.
Un abbraccio e la nostra tazza di caffé. Il nonno si accomodava su una poltrona vintage, per non dire su un rudere rattoppato... ma era tanto confortevole che non voleva sentire di averne una moderna, magari con i pulsanti che alzano e abbassano lo schienale. Il suo gatto Filemone amava affondare gli unghioli lì sopra. Io sedevo alla sua sinistra, la parte del cuore. Da quel lato il nonno ci sentiva meglio. Anche se in realtà era lui a parlare. Io lo ascoltavo in silenzio. Vedovo da diverso tempo, aveva sposato mia nonna appena ventenne. Con lei, creatura dolce e forte e fragile, aveva condiviso un matrimonio sereno e due figli, mia madre e mio zio.
Mi rendevo conto che mi sarebbe mancato moltissimo, nel momento in cui l’avessi perso. Quando la nonna è scomparsa ero poco più che una bambina. E mi rattristava l’idea di non avere potuto condividere le pieghe più intense del suo cuore. Poi sono diventata adulta. E il nonno aveva una saggezza che mi rasserenava. Avevamo stabilito il rito del caffè della domenica, un momento speciale, tutto nostro. I pensieri e i sentimenti spaziavano liberi. E registravo ogni istante, ogni espressione, ogni parola, con la consapevolezza che il nonno non sarebbe vissuto in eterno. E volevo che le sue parole fossero per me chicchi di vita e di ricordi. E intanto le mie inquietudini affogavano in una tazza di caffé.


“Allora, Nucci, di che cosa parliamo oggi?” – iniziava così il nonno, mentre versavo il caffé nella sua tazza preferita, uguale alla mia. Due “cup” bianche, con decorazioni blu dell’inconfondibile stile Meissen che avevo portato da un breve soggiorno in Germania, per inaugurare le nostre domeniche. Il nonno aveva accolto con grande entusiasmo l’idea. Spesso il riserbo, nelle persone, viene confuso con l’indifferenza o peggio, con l’apatia. E io avevo molto pudore nell’esprimere i miei sentimenti. E il nonno comprendeva la mia timidezza. E apprezzava il fatto che cercassi di superarla.
“Sai, nonno, stanotte mi è apparso in sogno un vecchio vestito di bianco, i capelli lunghi e la barba, intento in una sorta di meditazione. Aveva un’aria completamente serena e rilassata. Mi diceva di non disturbarlo per le mie piccole paure. Ho pensato a quante paure abbiamo, spesso ingiustificate, che alla fine ci rubano vita”. Il nonno sorseggiava il caffé e poi cominciava. Filemone si stiracchiava distratto e poi riprendeva a ronfare.
“Le tue parole, Nucci, mi portano alla memoria il racconto della tempesta sul mare, nel Vangelo di Marco. Un brano straordinario. Gesù calma la tempesta sgridando il vento e intimandogli il silenzio. Una volta placatosi il vento, egli chiede ai discepoli sulla barca con lui perché siano così paurosi. Quando siamo in difficoltà, la cosa più saggia da fare è trovare il nostro silenzio. Come il vecchio del tuo sogno. A che serve preoccuparsi? La vita va come deve andare. Il che non significa certamente subirla. Ci viene chiesto, in questo nostro passaggio terrestre, di prenderla in mano e imprimere noi la direzione. Attraverseremo la tempesta e la bonaccia, tante e tante volte. Ma se impariamo, nel nostro cammino, ad acquisire la forza del faro che resiste ai marosi e che illumina il percorso, la tempesta non ci farà più paura.”
“Facile a dirsi, nonno”. “No, non è facile a dirsi, mia cara Nucci. Non parlo così a caso. Ho impiegato almeno metà della mia vita a convincermi che la paura è inutile. Può essere utile, talvolta, soltanto per impedirci di compiere qualche imprudenza. Vedi, in queste tue tre parole leggo ancora la paura. Invece occorre maturare la fiducia. Qualunque cosa succeda, la potrò affrontare, se avrò fiducia. Alcuni la chiamano fede. La fede può portare alla costruzione di idoli, talvolta esterni a noi, rischiando di condurre al fanatismo. Io parlo invece di fiducia. Forse in Dio, non lo so...In ogni caso è una fiducia che va trovata in noi. Sì, al pari di Dio. E sai, Nucci, a mio parere, qual è l’ambito in cui è più difficile mantenerla in tutta la sua purezza e autenticità? Nell’amore. Paterno, materno, filiale, tra uomo e donna...Il demone dell’amore è il possesso. E il possesso preclude la via alla fiducia. Alla libertà. Alla serenità. Guarda anche solo come siamo tutti posseduti, nei nostri corpi, dal nostro straripante io, dai cattivi sentimenti, dalle cose, dalle malattie, perfino dalla morte. Credo che dovremo invece lasciar andare. E allora potremo guarire. Sia nell’anima che nel corpo.”


Il demone dell’amore è il possesso. Già. “E tu, nonno, da cosa ti senti posseduto?”, azzardai. “Alla mia età, spesso ci si sente posseduti dalla solitudine. Quando viene sera, mi sento solo. Solo in un senso diverso da quello che si può provare da giovani. Non è nostalgia di mia moglie o lontananza dai figli o mancanza di amicizie. È una solitudine meno totalizzante e più subdola. È fare i conti con te stesso. Forse è la paura di morire. Ti ho detto che la paura è inutile. Ma di fronte alla morte, in certi momenti ci si sente smarriti. Non di giorno. Ma di sera. Chi teme il buio? I bambini e i vecchi. Gesù Cristo, prima di morire, ha gridato “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”. Siamo soli, davanti alla morte. E l’idea di questa solitudine talvolta mi possiede”. Il nonno avevo uno sguardo serio e grave. Poi mi guardò, mi sorrise e mi chiese dell’altro caffé.
“Quando la nonna si ammalò, ebbe vicino fino all’ultimo la sua famiglia, me, tua madre, tuo zio...eppure pochi giorni prima di spirare, il mio piccolo io egoista non capiva la sua lontananza che via via, paradossalmente, si avvicinava. Lei si stava distaccando da noi e io non lo comprendevo, non comprendevo come, nonostante tutto, non potesse essere serena nell’averci tutti vicini, nel sentire tanto amore. Mi era difficile ammettere che “osasse” passare oltre noi, con lo spirito prima ancora che il corpo. E la risposta la trovai in quel meraviglioso capolavoro di Tolstoj che è Guerra e pace. Quando Tolstoj descrive l’agonia e la morte del Principe Andrej, sì, in quelle parole credo di aver percepito che cosa provava la nonna. E ho dato un senso anche ai miei sentimenti. Al fatto di non capire perché la nonna fosse assente, benché ancora tra noi. Pareva non le importasse nulla del mondo, né della sua famiglia. E mi sentivo molto ferito. Ero solo molto egoista. Me lo ha spiegato Tolstoj. Quando descrive lo sguardo rivolto dentro di sé del Principe, la sensazione che tutto gli fosse indifferente perché qualcosa di diverso e di più importante gli si andava svelando, lì, nelle pagine più alte che mai siano state scritte, trovi il senso della vita. Rileggi Guerra e pace, ma fallo quando qualcuno a cui tieni starà per passare dall’altra parte, in modo da essere pronta...”
Il nonno si alzò, andò verso la libreria e prese da uno scaffale il quarto volume di Guerra e pace. Lo aprì nel punto in cui spuntava un segnalibro e cominciò a leggere alcune parti tratte dai capitoli XV e XVI. Si fermò. Era commosso. Anche io mi sentivo emozionata. Allora abbracciai forte il nonno. Gli dissi che gli volevo bene. Lui mi diede un bacio. E ci preparammo un altro caffé, stavolta bello forte... Filemone ci seguì in cucina, come sempre. Risvegliato, pure lui, da tanto turbamento.
Qualche settimana dopo, una domenica uscii di casa molto presto e sentii che l’estate era ormai alle porte. Ero molto inquieta. La notte precedente mi ero svegliata di soprassalto. Avevo sognato che una delle due tazze di Meissen si frantumava a terra. Camminavo più fulminea del solito. Temevo potesse essere successo qualcosa al nonno. Lui era molto affascinato, come me, dal mondo onirico. Ci divertivamo tanto, nei nostri incontri, a raccontarci i sogni e a cercare spiegazioni, a volte le più strampalate...


Arrivata davanti al condominio del nonno, trovai un suo vicino che usciva con il cane. Mi salutò cordialmente e si stupì nel vedermi lì sul far del giorno. Mi fece entrare. Salii le scale e non sentivo il profumo del caffé. Il nonno non poteva immaginare che sarei arrivata così in anticipo. Suonai a lungo. Sentivo Filemone miagolare dall’interno dell’appartamento. Nessun altro rumore. Cominciai ad agitarmi. Corsi al piano di sopra: il nonno aveva consegnato a una vicina, la signora Agata, una copia delle chiavi di casa. Non si sa mai. Premetti il campanello e bussai forte alla porta, chiamandola per nome. Spaventata, mi aprì quasi subito in vestaglia ed estrasse le chiavi da un cassettino. Poi scendemmo rapidamente le scale.
Trovammo il nonno riverso a terra, accanto al letto. Era svenuto. Lo sollevammo da terra e lui riprese poco alla volta conoscenza. Era confuso. Ci sorrise. Chiese alla signora Agata di preparare un buon caffè. La vicina uscì dalla stanza e andò in cucina. Filemone salì sul letto. Il nonno lo accarezzò e mi chiese sottovoce: “Come hai fatto a capire che avevo bisogno di te?” e intanto continuava a sorridere sornione. Non gli raccontai i dettagli del sogno, non lo volevo spaventare. Che ingenua. “Stavolta vorrei smentire Tolstoj. Non so se ci riuscirò. Ma tu leggilo comunque. Ti racconto una cosa che non ho mai detto a nessuno. Quando è morta la nonna, ho immaginato di rivederla in ogni farfalla che vedevo volteggiarmi accanto. La loro vita è pure breve. Ogni farfalla è un pensiero alla nonna. Tutte e due hanno ali lievi.”
Gli occhi del nonno si inumidirono. “E tu, ogni volta che sentirai profumo di caffé, sappi che ti sarò accanto. Penserai a tutte le cose che ci siamo raccontati. A tutto ciò che abbiamo imparato, standoci vicini. Soprattutto, ricordati di non avere paura. L’universo ha un’alchimia che non ammette la paura. È infinitamente più saggio di noi.”
Il nonno si fece serio. Respirava a fatica. Fissava il vuoto oltre me. Vedeva altro. Io non esistevo più. Gli strinsi forte le mani e sentii la sua anima volare via. Intanto la signora Agata tornò nella stanza e pose le nostre due tazze sul comodino. Il profumo di caffé pervase l’intera stanza.

1 commento:

  1. Narrazione elevata, ricca d'ispirazione e di sentimento. È un tessuto di seta, intrecciato con sottilissimi fili.

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