martedì 2 dicembre 2014

Mancava solo il sale


di Marina Zinzani
Tratto da I racconti della pioggia

(ap) Il tema della pioggia ricorre in storie differenti, soprattutto di donne, animate da sentimenti contrastanti.

Martina era bella. Con le labbra a forma di cuore. Martina  sorrideva a chiunque. Martina aveva i capelli biondi di suo padre e gli occhi scuri di sua madre. Martina era un incanto. Martina non dormiva la notte.

Le giornate erano lunghe, in casa. Chiara allora prendeva Martina, la metteva nel passeggino, e la portava nei giardini.  A volte si portava un giornale, a volte incontrava qualche altra madre e si sedeva sulla panchina con lei, e parlava. Veramente parlava poco, e solo della sua bambina che in quei sei mesi le aveva cambiato la vita.
Aveva conosciuto Alessandra proprio ai giardini, lei era la mamma di Tommaso, un bimbo paffuto di qualche mese in più di Martina. Sua madre diceva che era come non averlo: dormiva tutta la notte, era buono, un bambino buono.
La maternità era una grande cosa. Questo aveva sempre pensato Chiara. Non avrebbe mai concepito non essere madre, e non capiva chi preferiva essere più libero, avere meno problemi, e non avere figli. Aveva visto, in quelle coppie, qualcosa di sterile ed egoista, aveva pensato che le donne che rinunciavano ad avere figli si perdevano qualcosa, avevano una nota diversa, quasi contro natura.
Questo aveva pensato sempre, e negli anni di fidanzamento, e poi all’inizio del matrimonio, aveva fantasticato con Roberto sul bambino che avrebbero avuto. Magari due, chissà. Quando vedeva dei completini  per bambine, nastri da mettere nei capelli, vestiti da adulti che apparivano buffi ed irresistibili indossati dai bambini, se li immaginava sulla bambina che avrebbe avuto. Perché aveva pensato sempre ad una bambina, quando si parlava di figli, quasi se lo sentisse che sarebbe stata una femmina.
Martina era arrivata, e a tutti era sembrata la bambina più bella del mondo. Quei tutti che erano suo marito, i suoi genitori, i suoceri, i fratelli, i cognati. Il suo mondo. Martina, con i suoi boccoli biondi, incantava.
Chiara aveva ancora dei mesi davanti, prima di riprendere il lavoro. Certo, non navigava nell’oro, non poteva fare solo la mamma. E allora aveva già preparato i suoi mesi futuri: si sarebbe alzata presto, molto presto, avrebbe poi portato la piccola da sua madre, e sarebbe tornata a riprenderla la sera. Mica lo davano il part-time, nella sua ditta. Otto ore, otto ore di lavoro e una bambina da gestire. Anche la casa da gestire, veramente. Perché da Roberto veniva un aiuto blando, impacciato. Molti uomini erano così.
Era un giorno di festa, quello. Si festeggiava il compleanno di suo fratello, e tutti erano andati a casa dei suoi genitori. Il lavoro era ripreso, e lei aveva cominciato la vita che aveva programmato: sua madre avrebbe seguito Martina. Non poteva muoversi, sua madre, andare da lei, perché aveva anche la nonna da seguire, e non poteva lasciarla sola. Ci si arrangiava, certo c’erano dei sacrifici, degli orari da rispettare, ma lo facevano tutti, tutte le sue colleghe con i figli correvano, prigioniere di orari.
Ecco, prigioniere… Il giorno di festa era come altri giorni lieti, in cui la famiglia si riuniva, e tutti erano attorno a Martina, suo padre, suo fratello che la teneva in braccio e ancora non aveva figli, sua sorella che la coccolava e le portava ogni volta un piccolo regalo. Fu in quel giorno lieto che cominciò. Aveva voglia di piangere. Cominciò la sua voglia di piangere.
La tavola imbandita, Roberto che parlava con suo fratello, la torta che sua madre aveva preparato, la nonna dalla salute malferma e vestita elegante per l’occasione: andava tutto bene, Martina se la dividevano con desiderio, era il centro dell’attenzione. Perché era bella, Martina, anche se non dormiva la notte.
Otto ore. Otto ore di lavoro e sua madre che gestiva la piccola. Certo, dormiva, la piccola. Paradossalmente dormiva più di giorno che di notte, capitava ai bambini. Ore frammentate di sonno, pezzi di ore. Gli occhi gonfi, la mattina. La sveglia guardata con gli occhi aperti alle cinque del mattino. E poi, poi si cominciava… Cominciava la serie di cose da fare…
Era cominciata lì a tavola, la voglia di piangere. Ma nessuno se n’era accorto. Anzi, aveva sorriso, mentre suo fratello scattava le foto, mentre tutti sorridevano. Li guardava, e improvvisamente li sentiva estranei, come se si stesse allontanando da loro…
Poi era accaduto un altro giorno. Era in macchina, stava tornando a casa, doveva andare da sua madre e riprendere Martina. Era già buio ed era anche tardi, l’avevano trattenuta in ufficio. Non ce la faceva a fare la spesa. Mancavano delle cose in casa, delle cose importanti, avrebbe potuto prenderle Roberto, ma chissà dov’era a quell’ora, chissà se sapeva cosa ci voleva in casa… Mancava anche il sale, il sale grosso, quello che si mette nell’acqua per cuocere la pasta, come avrebbe fatto, la sera mangiavano sempre la pasta… Il sale grosso, il sale… Le luci delle auto, la tristezza, ecco, riprendeva, quella cosa che aveva sentito a casa dei suoi, quella cosa che saliva su, su in gola e poi usciva, erano lacrime che uscivano, lì, in auto, nel traffico di gente che torna a casa la sera… Cos’era successo… Niente era successo… Mancava solo il sale, avrebbe dovuto fare la pasta senza il sale…
Si fermò qualche minuto davanti alla casa di sua madre, senza entrare. Si guardò allo specchietto della macchina, si asciugò gli occhi. Si vide brutta, rugosa. Improvvisamente. E aveva solo trent’anni. Doveva entrare, prendere Martina, e riportarla a casa, e ricominciare, ricominciare le solite cose della sera, preparare la cena, rimettere in ordine, fare la lavatrice…
Altro compleanno, altra festa. Nella sua famiglia non si dimenticava mai di festeggiare. Ci si trovava, tutti insieme, perché era una famiglia unita, la sua. Che le voleva bene, innamorata di Martina, che aveva accolto Roberto con tanto affetto.
Sua cognata Mirka aveva portato un giocattolo a Martina. Era elegante, con una calzamaglia che mostrava gambe snelle, un maglione apparentemente trasandato ma di moda, stivaletti  di camoscio. Bella, truccata, con il volto disteso. Si abbracciarono, poi andarono nel soggiorno, dove Martina era già in braccio al nonno.
Chiara andò poi in cucina. Sua madre era intenta a togliere l’arrosto dal forno, era ora di andare a tavola. Era diversa dal solito, sua madre, come avesse un pensiero, un malumore…
“Adesso l’ho saputo… me l’ha detto lei… tuo fratello non avrà mai figli, Mirka non ne vuole…” disse la donna scuotendo la testa.
Erano poche, frettolose parole, a cui non seguì altro, perché proprio Mirka era entrata anche lei in cucina.
Fu a tavola che suo fratello parlò del viaggio che avevano appena fatto. New York, stupenda Manhattan, è tranquilla, non ci si crede le cose che ci sono,  e giù a parlare e gli occhi gli brillavano a suo fratello, e anche sua moglie Mirka commentava, lo interrompeva, diceva: “Perché non racconti…?” e poi Broadway, avevano visto anche un musical e poi mille altre cose, e avevano affittato una macchina e avevano girato, girato, e giù nomi di città che si sentono alla televisione… una cosa incredibile, incredibile…
E allora Chiara guardò Mirka e sentì dentro di sé una sensazione cattiva. Invidia. Lei poteva andare, muoversi, decidere di prendere un aereo e andare a New York, vedere un musical  a Broadway, affittare un auto, quante cose accidenti poteva fare, in fondo avevano due stipendi e nessun figlio da mantenere…
Invidia. Invidia perché sua cognata si poteva muovere, perché era briosa, solare. Lei sentiva la notte, e non poteva dirlo a nessuno. Lo sapeva com’erano fatti i suoi, e anche Roberto: ad ogni problema c’era il medico giusto, mica capivano loro… Mica capivano che non avrebbe più fatto quello che faceva prima, alzarsi la mattina e decidere della sua giornata… I figli, ora aveva la responsabilità di sua figlia, i suoi orari erano scanditi dalle necessità della piccola.
Guardò Martina, in braccio a suo padre. Si sentì un mostro. Mirka poteva fare tutti i viaggi che voleva, ma non avrebbe mai saputo cosa significava tenere un figlio un braccio… Erano pensieri che cercavano di tamponare l’ansia, il disagio, che salivano sempre di più in gola. Come quel precedente compleanno, come quella sera in macchina…
Si alzò, si diresse in bagno. Fece scorrere l’acqua del lavandino e se la buttò nella faccia. Devi farti forte, non farti vedere da nessuno che ti viene da piangere…
Mentre si asciugava il volto, guardò dalla finestra del bagno. Pioveva. Pioveva e la sua era una famiglia felice, non poteva desiderare di meglio. Pioveva e la pioggia aveva qualcosa di così simile al suo cuore, la malinconia delle cose non dette, che non si potevano dire… Non sarebbe stata più libera… Che discorso orrendo, schifoso… Non ce l’avrebbe fatta a gestire tutto, tutti quegli orari, il lavoro, la casa, la bambina… Eppure come facevano le altre donne… Si doveva vergognare, di pensare a quelle cose, mentre c’era chi stava peggio, chi non aveva aiuti, chi era solo…
La pioggia cadeva, delle lacrime caddero sul suo volto. L’ansia, il batticuore, il mostro che si stava risvegliando e la stava trascinando giù. Depressione post partum? Medicine, psicologi, ci sono medicine che fanno miracoli in questo caso, succede, succede alle donne, hanno tante cose da fare, devono riprendere a lavorare, con dei ritmi assurdi, inumani, e non possono stare con i loro figli… Quante volte, alla televisione, aveva sentito questi discorsi…
Doveva essersi abbandonata un po’ troppo in bagno, perché sua madre aveva bussato alla porta, chiedendole se stava bene.
Allora lei uscì, con un mezzo sorriso, come se niente fosse accaduto. 

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