giovedì 25 dicembre 2014

Alle nove di sera


di Marina Zinzani
Tratto da I racconti della pioggia


(ap) Storie di donne diverse: il tema delle pioggia le percorre in modo misterioso. Non solo scenario, talvolta anche specchio di inquietudini.

Riavvolgere il nastro. Ricominciare daccapo. Riprendere da un certo punto preciso, e annullare quello che c’è stato dopo. Trattare il tempo come un file del computer: canc, cancellare.
No, non è mai esistito quel discorso, quella cosa, quel momento. Non c’è mai stato. E tutto continua come prima.
Le parole che non devono uscire e invece escono, oppure parole che possono uscire e invece c’è solo silenzio. Riavvolgere il nastro, e far sì che ogni cosa abbia il suo corso, il corso giusto, quello che va bene, quello che non turba, quello che lascia le cose così come sono.
Bianca aveva incontrato Carla al bar per caso, e aveva passato con lei dieci minuti, a parlare del più e del meno. Erano state colleghe in uno studio di commercialisti, fino a qualche mese prima. Poi Carla aveva detto quella frase: “Sai, Deborah si è separata…”
Era un po’ ruffiana, Deborah, ci sapeva fare con i capi, e lei, Bianca, da due anni, aveva dovuto sopportare quelle angherie, piccole, sottili, ma che come aghi entravano dentro la mente. Mobbing. Velato. Per farla sentire di serie B. Uno dei tanti contratti a tempo determinato che simboleggiavano anche progetti a termine, situazioni a termine. La paura no, quella non era a termine. La paura di non ritrovare un altro lavoro, la paura di soffrire di nuovo con i colleghi, la paura di essere per tutta la vita di serie B.
Deborah invece era l’opposto: la stabilità, la preferita dei tre capi, quella che era sempre al centro dell’attenzione. Quella con una bambina bellissima di sette anni e una suocera a casa che l’adorava. Quella che andava a Parigi due settimane, perché se lo poteva permettere. Era così la vita, c’era a chi andava bene e a chi andava male.
E a Bianca le cose erano andate decisamente male: un matrimonio breve, fallito. In un modo talmente stupido che si vergognava a dirlo, infatti non scendeva mai nei dettagli: suo marito si era messo con una da cui aspettava un figlio, e tutto questo mentre era ancora sposato con lei. Una volta nato il figlio, le aveva detto tutto e se n’era andato di casa.
E poi il lavoro… La sua ditta dove aveva lavorato per tanti anni era fallita, e aveva trovato posto in uno studio di commercialisti, e lì aveva dovuto accettare un contratto a tempo determinato, che era comunque qualcosa.
E aveva dovuto accettare anche di essere l’ultima interpellata, quella che restava nell’ombra, sempre. Certo, non faceva poi niente per migliorarsi, ma la tristezza, il senso di inutilità, se li portava dietro, come una zavorra da cui non riusciva a liberarsi. Vedeva il suo corpo con gli occhi del marito che l’aveva lasciata, e si vedeva ora stanca, pallida, informe. Aveva anche perso parecchi chili, e il colorito era diventato diafano. Ma c’era il dolore, accidenti. Quel dolore che le si era appiccicato addosso, che andava di pari passo con la stanchezza, il tormento, il rimuginare, forse l’odio. “Quell’altra, cosa ci avrà trovato nell’altra… Un figlio… Non voleva figli con me…” Parole continue, che torturavano la sua mente.
I pensieri l’avevano avvilita, abbattuta per mesi, e poi, piano piano, erano diventati più tenui, ma lei si era ingrigita, era come una foglia secca caduta in autunno. Calpestata, trasparente, senza colore.
E ogni giorno, in quello studio di commercialisti, l’aveva avuta davanti la felicità. Quella sbattuta sul suo volto, quella espressa nelle foto della bambina di Deborah, un bel ritratto sulla scrivania, quella dei viaggi, quella delle cene con amici in bei ristoranti. Quella dei regali di Natale. Feste in famiglia, il marito che le faceva bellissimi doni.
Quella felicità sbattuta davanti le aveva fatto ancora più male, magari non era voluta, ma certo l’avevano fatta sentire ancora più triste e sola. Triste e sola. Il mondo andava, correva, c’erano le scadenze, il fisco era diventato sempre più una giungla, negli anni. Quelle parole, triste e sola, mica interessavano a qualcuno, anzi, dava fastidio il suo volto sempre serio, compassato, senza slanci.
Ma Deborah aveva un segreto, un piccolo grande segreto. Che strano, era bastato un attimo, Deborah che è in bagno, suona il suo telefono, e lei, Bianca, si alza a rispondere. Doveva? Sì, lo faceva delle volte, per non fare aspettare un cliente. Solo che quel giorno aveva dato un’occhiata al computer della collega, aperto sulla  posta. Quelle parole… No… “Ci vediamo al solito posto, alle sette.”
Bianca si era subito seduta alla propria scrivania, mille pensieri le erano divampati nella mente. Aveva letto il mittente dell’e-mail. Scardovi. Uno dei titolari dello studio.
E allora Bianca aveva pensato, pensato… E tanti piccoli particolari avevano cominciato ad emergere nella sua mente, come tanti indizi che creavano un quadro preciso con quella frase “Ci vediamo al solito posto, alle sette.”
Sì, Scardovi e Deborah se l’intendevano, sembrava proprio così… Delle volte erano andati da alcuni clienti insieme, che strano… Mica Carla c’era mai andata dai clienti con uno dei commercialisti, e nemmeno lei, ma Deborah sì, ci andava sempre con Scardovi… Andavano dai clienti, quindi…
Eppure, a mano a mano che il tempo passava, certe cose si delineavano meglio, certe situazioni, anche telefonate che il marito di Deborah le faceva, lei diceva che avevano delle scadenze da rispettare,  ed avrebbe fatto tardi quella sera, mentre invece erano uscite sempre tutte e tre in orario…
Pochi giorni dopo, Bianca incontrò il marito di Deborah in un bar.
Sola, come sempre, aveva preso un cappuccino e una brioche e si era messa a leggere il giornale. Sentì dietro le spalle una voce.
“Lavora con la mamma…”
Bianca si era girata. Era Carlotta, la figlia di Deborah. Era venuta qualche volta in ufficio, ed era col padre. Bianca lo conosceva, si erano incontrati ad una cena di lavoro, con quelli dello studio.
Bianca aveva salutato alla meglio la bambina, si sentiva quasi impacciata. Anzi, se fosse stata per lei, non si sarebbe fatta vedere dal marito e dalla figlia di Deborah. La ferivano ancora le parole della collega di qualche giorno prima: “Tanto fra pochi giorni te ne vai, è inutile che ti insegni questa cosa. La insegnerò alla prossima che verrà.”
Bianca aveva sentito bruciare la rabbia, e poi la rabbia era diventata sconforto, e lo sconforto apatia. Era stata a letto quasi tutto il week-end. Sola, senza lavoro, abbandonata. E Deborah non aveva neanche la diplomazia, la sensibilità di capire che aveva di fronte una futura disoccupata, separata, e che poteva essere più gentile. No, Deborah non ce l’aveva questa sensibilità… Aveva tutto, era come una regina. Ogni cosa le era dovuto e permesso. Anche di tradire il marito, impunemente.
“Allora, come va? Deborah mi ha detto che ti scade il contratto… Hai già in mente qualcos’altro?”
“No, ho fatto delle domande, dei colloqui… Vedremo… Non è facile, di questi tempi…”
Padre e figlia si sedettero al suo tavolino. La bambina era decisamente carina.
“E lì, nello studio, ti sei trovata bene?”
“Sì, non c’è male…”
“Certo che vi fanno lavorare… Non si può tornare a casa alle nove, donne che hanno famiglia… Piuttosto prendano un’altra impiegata…”
I pensieri… Tornare a casa alle nove… Ma quando? Da tempo il lavoro era calato, e Bianca non ricordava proprio un’ora di straordinario… La vedeva Deborah  uscire con lei, o a volte anche prima. Ecco, come faceva… Diceva che c’era tanto lavoro in ufficio e si incontrava con Scardovi… Ci vediamo alle sette…
Non si può tornare a casa alle nove. Avrebbe dovuto confermare. Lamentarsi anche lei. Dire che in effetti era troppo tardi. Ma non lo disse. Lo guardò negli occhi e tacque. Poi guardò la bambina e le fece un sorriso.  Avrà capito? Sì?
Il silenzio di Bianca sembrò interminabile.
“Perché tornate sempre tardi, vero?”
Bianca fece un’espressione strana, scosse lievemente la testa, e restò muta.
Erano passati mesi da quel giorno, il suo lavoro nell’ufficio era terminato e ora aveva incontrato per caso l’altra collega, Carla. “Deborah si è separata…”
Si era separata… Chissà se quel suo silenzio, quel giorno,  quello che non confermava che la moglie faceva tardi in ufficio, c’entrava qualcosa in quella separazione…
Doveva essere contenta, ora. Si era vendicata. Mica aveva avuto pena per lei, Deborah, mica le aveva mostrato un po’ di gentilezza, in ufficio…
Bianca salutò Carla e si avviò lentamente verso le vie del centro.
Il cielo era diventato grigio, cominciavano a cadere delle gocce di pioggia. Ricordò il marito di Deborah, uomo che con lei era stato gentile, e la sua bambina, quella bambina probabilmente affidata alla madre che lui avrebbe visto solo nei week-end, come i padri separati.
Immaginò la sua nuova casa, la sua solitudine, il suo senso di fallimento. Magari quella storia della moglie con Scardovi, se veramente c’era stata, avrebbe potuto finire così, senza problemi... Se lei avesse confermato, detto qualcosa… “Sì, facciamo spesso tardi, la sera…”
Era questa la vendetta, forse. Ma non aveva un buon sapore. Aveva il sapore delle cose marce, secche, asciutte, sgradevoli, sporche. Quello che piano piano lei, Bianca, era diventata.
Le veniva da piangere. Non era felice di quello che era successo. Non voleva fare soffrire nessuno. Si strinse la giacca, perché iniziava a fare anche freddo, e camminò lentamente, come se il freddo congelasse le sue gambe, la sua mente, il suo cuore.

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