Racconto di Valeria Giovannini
(ap) Sui tapis roulant, in una anonima palestra di
città, o invece in aperta montagna, lungo percorsi in quota tra scenari
mozzafiato, o ancora nei ripidi pendii sul limitare di piccoli torrenti. Un
surrogato triste dell’evasione dal tran tran quotidiano, oppure il bisogno di
perdersi nel silenzio, senza alcuna meta da raggiungere che non sia la
conquista di uno sguardo rivolto dove non era mai arrivato. Modi diversi di
correre, di muoversi, di vincere lo smarrimento, di respirare gli attimi del
vivere.
Correre in compagnia. Guardi sempre avanti. Parli. Ascolti.
Ti lasci condurre. Condivisione. Allegria. Un aiuto. Percorso difficile. Non
aggiri più gli ostacoli. Impari a scavalcarli. A non temere le insidie sotto le foglie. Sotto la neve. Se
aggiri gli inciampi, rallenti e ti fermi. Se ti fermi cadi, come in bicicletta.
Correre. Non fermarti mai. Affronti gli ostacoli mano a mano. Se ti preoccupi
prima, sei già morto.
Correre in un mare di rocce.
Dove in tempi remoti tutto era ghiaccio. Il passo irregolare tra grandi massi.
I segni del tasso su una pietra. Lì ha affilato gli unghioli. Le orme dei
dinosauri. Balzi tra i sassi. Imiti i gatti. Le ginocchia flesse, in discesa. E
allunghi, allunghi. Non solo i passi. Anche il respiro. Le giornate. La vita.
Cambiano le stagioni. I
panorami. Le persone. Riesci finalmente a raggiungerti. Nei tuoi abissi. Nelle
tue distanze siderali. E in ogni posto nuovo in cui giungi, la prima domanda è
dove puoi correre. E quando. Lo spazio e il tempo. A scandire i passi. I tuoi.
Bellissima poesia del correre.
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