giovedì 9 agosto 2018

Marlon Brando

Non solo storie romantiche nel cinema, uomini anche duri e violenti, il sapore dell’inquietudine

di Marina Zinzani

Può una canottiera cambiare il cinema? Sì, può. E’ accaduto con Marlon Brando, quando la sua canottiera, nel film  “Un tram che si chiama desiderio”, sconvolse i benpensanti e gli standard dell’epoca.
Quella canottiera fu una linea di demarcazione fra i personaggi precedenti, attori che interpretavano uomini forti, virili, ma anche gentili,  e il personaggio di Marlon Brando, duro, sgradevole, inquieto.
Per l’epoca fu uno shock, ma tutti si inchinarono alla bravura di Brando,  cresciuta nella scuola dell’Actor’s Studio di Lee Strasberg con il metodo Stanislavskij. Un metodo che prevede l’immedesimazione estrema nei sentimenti del personaggio che si interpreta, il provare veramente dolore, sofferenza. E Brando continuò  con altri personaggi inquieti e tormentati, duri, violenti, falliti, sgradevoli, sempre regalando emozioni forti.
Da quella canottiera iniziò un certo cinema,  che parlava di teppisti, di gioventù bruciata, di sogni svaniti. Hollywood usciva da quella nuvola in cui si erano collocati i sogni di una generazione dopo la guerra, quando il cinema doveva risollevare il morale, dare prospettive, supportare il sogno americano.
Il cinema non faceva più sognare storie d’amore romantiche, ma mostrava la realtà, senza fronzoli. Faceva interrogare, riflettere, apriva squarci dolorosi. Marlon Brando ha espresso molto di questa caduta, o meglio aderenza alla realtà, nei suoi personaggi. I titoli appartengono alla memoria collettiva, “Il selvaggio”,  “Fronte del porto”, “Apocalipse now”, “Gli ammutinati del Bounty”. Non fu una carriera sempre splendida, ci furono alti e bassi, ma verso la fine si impose con film importanti come “Ultimo tango a Parigi” e “Il Padrino”. I kleenex messi dentro le guance per dare il volto a Don Vito Corleone sono ancora leggenda. Quando riceve l’Oscar per “Il Padrino”, manda una ragazza Apache a leggere un comunicato: rifiuta il premio a causa del modo in cui il cinema tratta i nativi americani. E’ un segno di protesta forte, che fa scalpore.
La caduta delle certezze o  finte certezze dell’epoca  ha caratterizzato non solo il suo cinema ma anche la sua vita, un lento disfacimento di un corpo e di un volto bellissimo, da angelo con toni fortemente maschili, che aveva fatto sognare milioni di donne. Quel corpo era diventato sempre più pesante da portare. Era arrivato fino a 150 chili.
Poi, la tragedia. Suo figlio Christian uccide il fidanzato della sorellastra Cheyenne, accusato di maltrattarla nonostante lei sia incinta.  Per Brando inizia un altro  film, un’altra vita e niente sarà più come prima. Chiede al giudice che il figlio non paghi il nome che porta, gli riconosce l’abuso di alcol, droghe, e l’essere stato al centro di una forte disputa fra lui e sua moglie da piccolo. Parla delle fragilità di Cheyenne che aveva avuto un gravissimo incidente d’auto e non si è mai ripresa.
Se Christian sconterà pochi anni di prigione, Cheyenne non sopporta questa tragedia, ponendo fine alla sua vita. Anche Christian morirà non molti anni dopo, a 50 anni.
La sua isola in Polinesia è lontana,  se n’è andata la bellezza, rimane poco dell’uomo che ha fatto sognare. Si dice che mangiasse chili di gelato. Aveva figli illegittimi, aveva avuto mogli, amanti, anche la domestica gli aveva dato dei  figli.
Il declino del sogno americano è stato anche il declino dell’uomo Brando, e anche dell’attore, relegato alla fine della carriera a film di cassetta, un epilogo triste per uno che aveva incantato il mondo. Solo, senza denaro, speso nel mantenimento di mogli, figli, avvocati, si avvia ad un triste epilogo.
Rimangono i suoi film, rimane un attore straordinario, forse il più grande di tutti. Alcune sue immagini sono rimaste nella nostra memoria e sono indelebili. E lui è lì, a soggiogarci sempre. Con il rimpianto che non ce ne sono più di attori così.

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