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Gli occhi di Lella

di Marina Zinzani
Tratto da I racconti della pioggia

(ap) L’atmosfera della pioggia accompagna, con questo racconto, eventi umani in cui il destino di una madre, e prima ancora di un figlio, è nelle mani di un giudice chiamato alla responsabilià di una decisione tormentata, che può cambiare, anche tragidamente, il corso di una vita.

La mattinata era grigia, di quelle che non promettevano niente di buono. C’era aria di pioggia, e faceva freddo. Augusta, la collega, aveva richiuso la finestra.
“Sta venendo un temporale, dottore, e con questo vento volano i fogli.”
Ernesto non aveva ascoltato la donna. Stava leggendo una pagina di giornale.
“Queste sono le pratiche che mi ha richiesto, dottore.”
Lui fece cenno di sì con la testa, ma non alzò gli occhi, non la guardò. E non la guardò perché il suo sguardo era fisso su una foto del giornale, quella che stava sotto un grande titolo.
Passò alcuni minuti a leggere l’articolo, mentre la collega accennava ancora a qualcosa, inascoltata.
Poi  Ernesto si alzò, ripiegò il giornale, ed uscì dalla stanza.
Fece una rampa di scale, e si ritrovò in strada. Non aveva voglia di prendere il caffè dell’ufficio, quella macchinetta che sostentava tanti momenti pesanti, ore di lavoro fino a sera tardi. No, non aveva voglia del caffè del Palazzo di Giustizia.
Entrò nel bar vicino allo stabile. Cercava un po’ di silenzio, non voleva parlare con nessuno. 
Ordinò un caffè, e guardò fuori. Avrebbe sicuramente piovuto nel giro di poche ore, forse di pochi minuti. Mentre la barista gli metteva il piattino sul tavolo, sbattendo poi il contenitore del caffè, Ernesto si girò, sentendo le voci di due donne. Una mostrava all’altra la pagina del giornale. Lo stesso giornale che aveva appena letto lui.
“Hai visto la Lella,  povera ragazza…”
“Non mi dire… quando l’ho saputo ieri sera… non ci ho dormito stanotte…”
 “Non dovevano toglierle  il figlio… da lì è nato tutto, da lì…”
“Lo so, lo so bene. E adesso… vaglielo a dire a quel giudice cosa ha combinato…”
La barista mise la tazza del caffè sul piattino.
“Prego, dottore” disse con un sorriso.
La bustina di zucchero strappata, lo zucchero di canna versato lentamente nel liquido marrone. L’odore pungente, il sapore che rimaneva amaro. “Vaglielo a dire a quel giudice…”
Girotondo. Giro girotondo, fai un salto, fanne un altro, fai una giravolta e tutti giù per terra! Un bambino che correva, un bambino che era in braccio alla madre, un bambino che parlava sempre.
Una madre magra, molto magra, con grandi occhiaie, il viso sciupato, i capelli bruciati da troppe tinture. Una madre con un passato difficile. La famiglia dell’ex marito invece  rispettabile, gente perbene. Avevano negozi, erano persone conosciute  in città.
Le storie che finivano male, i matrimoni che non reggevano, i figli da crescere, e dato che i grandi non riuscivano a gestirne un futuro sereno, ci si affidava ad altri. A giudici. A lui era stato affidato quel caso di Rossana. Lella, la chiamavano tutti.
Una ragazza magra e fragile. Inadatta a crescere un figlio da sola, senza un lavoro, in un monolocale, senza una famiglia alle spalle che potesse aiutarla, questo aveva detto l’ex marito. Il padre l’aveva abbandonata, la madre era chissà dove, si era trovata uno e se n’era andata. Né madre né nonna per il piccolo Tommaso, era stata.
Una ragazza fragile e sensibile. Amava dipingere. Lella gli aveva portato un disegno fatto da lei, certo, l’attitudine alla pittura c’era, e gli aveva anche portato i disegni di Tommaso, che volevano imitare quelli della mamma.
“Mio figlio disegna con me. Ci divertiamo insieme. Facciamo tanti giochi. Lo porto al parco, alle altalene, ci sono altri bambini, gli piace tanto il giro girotondo, se lo ricorda, dottore? La prego, mio figlio è tutto quello che ho, non me lo porti via.”
Perizie, assistenti sociali, avvocati della famiglia dell’ex marito che garantivano per il bambino stabilità e affetti. Una nuova compagna di lui che gli avrebbe fatto quasi da madre, nonni paterni che potevano garantirne la gestione senza problemi, un benessere economico che significava  pure quello qualcosa. Erano tutti dati ben chiari, sicuri.
E dall’altra parte… L’ex marito aveva evidenziato la propensione alla depressione della donna, al suo passato da anoressica, alla sua famiglia da cui emergevano, diceva lui, i suoi problemi, demoni che si portava dentro, non era cattiva, poverina, ma da qui ad essere una buona madre ce ne voleva… Crescere un figlio era una cosa seria, e c’era  la sua instabilità, soffriva anche di attacchi di panico, e cosa avrebbe fatto un bambino se si trovava da solo con una madre così, in quelle condizioni…
Tutta la razionalità aveva fatto decidere in una direzione. Il bambino affidato al padre. Lui, come giudice, aveva deciso. Lui era entrato nella vita di quella ragazza e aveva deciso come sarebbero stati i suoi giorni, il suo futuro. Ma ora quel futuro non c’era più.
Un potere enorme, decidere della vita degli altri. Prendere decisioni che danno da una parte e tolgono dall’altra, e togliere significa cambiare il percorso dei giorni, e non solo di una, ma di tante persone attorno a quella di cui si è emesso una sentenza.  Un potere che ora, davanti alla foto del giornale di quella povera ragazza, sapeva di beffardo. Un potere simile a Dio, e invece così miseramente triste, perché frutto di qualcosa di umano, e quindi di limitato, forse di superficiale.
La solitudine lo colse. Si guardò attorno. C’erano delle impiegate nel bar, le conosceva, si apprestavano ad andare anche loro nel Palazzo di Giustizia. Parlavano, erano serene. Ecco, avrebbe voluto essere come loro, lavorare in ufficio, battere un testo al computer, preparare una pratica. Non decidere, non prendere nessuna decisione sulla vita degli altri.
Le invidiò, quelle donne, quelle parlavano di figli, di un corso di nuoto a cui dovevano portarli, non si portavano il peso di nessun errore, di nessuna valutazione che poteva essere stata superficiale. Le invidiò, ma poi provò a giustificarsi. Era andata così. Forse aveva ragione il padre del bambino, Lella era una donna fragile, inadatta, magari avrebbe potuto fare una sciocchezza anche con il piccolo… Si tende a lasciare sempre i bambini alla madre, e poi, poi quando si vedono certi eventi, si pensa a mille cose, con il senno di poi…
No, lui aveva agito bene. Fatto la cosa migliore. Doveva chiarire con se stesso. La valutazione era stata fatta bene, non aveva niente da rimproverarsi.
Pagò il caffè ed uscì, tornò in ufficio. Il vento gelido stava portando delle gocce di pioggia. Sulle scale incontrò un collega.
“Salve, dottore.”
Lui sorrise, andava tutto bene in fondo, era una giornata di lavoro come le altre.
Entrò nel suo ufficio. La sua scrivania da decenni. Il giornale ancora sul tavolo. Lo sfogliò un’altra volta, arrivò alla pagina.
Lella lo guardava, con gli occhi tristi che chissà quali cose avevano visto. La vide con i suoi disegni, per un attimo entrò in quel suo monolocale e la vide disegnare con suo figlio, ambiente piccolo, semplice, ma il suo sorriso, il bacio che dava al piccolo erano il sole…
“Allora, dottore?” chiese insistente la collega.
Lui alzò gli occhi.
“Va bene, cominciamo”, disse, ripiegando il giornale.

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