mercoledì 25 febbraio 2015

Spericolato quel crinale


(ap) Cambiano le regole sulla responsabilità civile dei magistrati, la velocità del decidere ha fatto aggio sulla riflessione.
“Un passaggio storico”, è stato annunciato trionfalmente. Forse, la storia si nutre d’altro. Finalmente, “la giustizia sarà meno ingiusta e i cittadini saranno più tutelati", è stato proclamato.
Concetti di alto rilievo, che meritavano una diversa attenzione e soprattutto un’applicazione rivolta ai nodi veri del sistema giustizia, quelli che la bloccano, che la fanno arrancare, e indietreggiare, e che la trasformano nel suo contrario, la  malagiustizia.
Intanto, tra le conquiste spicca – nella sua singolarità – l’introduzione della nuova causa di responsabilità per danni, costituita dal “travisamento del fatto e della prova”. Una formula ambigua e pericolosa che si sporge, in modo devastante e minaccioso, su un crinale difficile e discutibile, di dubbia costituzionalità, quello che del sindacato – si badi bene, al di fuori dei  legittimi meccanismi di controllo processuali – sull’interpretazione della legge. Che spetta al giudice.
Nulla accade senza che abbia un valore simbolico e una ricaduta sul sistema. In questo caso, la forza del pregiudizio ha trasformato il tema sacrosanto della responsabilità in altro da sé, identificando in questo tema la radice e la causa di un disservizio, che è sotto gli occhi di tutti, e le cui cause sono tanto radicate nel tempo quanto diffuse nella loro stratificazione sociale.
Le parole altisonanti tuttavia non possono riempire il vuoto lasciato dall’assenza di riforme efficaci: le regole del processo e delle impugnazioni, la disciplina della prescrizione, le disfunzioni organizzative, la mancanza di risorse umane e materiali, il difetto di innovazione, il trascurato ripensamento della funzione della sanzione penale.
Nemmeno per ultimo arriva il pensiero di salvaguardare una casta o la preoccupazione  inconfessabile di giustificare l’errore intollerabile, tanto più se doloso o gravemente colposo, come è giusto che sia in uno Stato ancora di diritto. Né la pavidità, di fronte ad una simile forte sollecitazione, può spingere a preferire soluzioni meno rischiose, come l’interpretazione conformista della legge, le scelte operative comode, una giurisprudenza cautamente difensiva.
Piuttosto, se l’indifferenza per la funzione della giustizia faceva intravedere a Salvatore Satta, già nel 1948, una “condizione malinconica del magistrato del nostro tempo”, sono talvolta proprio i passaggi storici decantati che rendono problematico l’assolvimento del compito indicato, l’altro giorno, dal presidente della Repubblica ai nuovi magistrati: “l’ordinamento esige che il magistrato sappia collegare equità e imparzialità, fornendo una risposta di giustizia tempestiva per essere efficace, assicurando effettività e qualità della giurisdizione”.  Chi mette il magistrato in condizione di farlo?
Non è proprio difficile individuarne le ragioni, anche attuali. Può bastare sfogliare un vecchio libro, “L’elogio dei giudici”, sul quale tutti ci siamo formati, il testo più saggio e illuminante, non a caso scritto da un avvocato, Piero Calamandrei,  membro della Costituente, partigiano, che ammoniva: “Il pericolo maggiore che,  in una democrazia, minaccia i giudici è quello dell’assuefazione, dell’indifferenza burocratica, dell’irresponsabilità anonima”.

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