Passa ai contenuti principali

Teresa

di Marina Zinzani
(Introduzione di Angelo Perrone)

(Tratto da “Racconti della metro”)

(Angelo Perrone) La metro non è l’unico luogo-simbolo delle città moderne. Certo particolare. In uno spazio piccolo e super affollatosi ritrova un’umanità eterogenea. Persone sconosciute con destinazioni diverse. Difficile scambiarsi sguardi, rivolgersi parole. Ogni persona, un mondo a sé. Pensieri, desideri, preoccupazioni.
C’è poi una maschera espressiva che nasconde l’intimità. Il viso è chino sullo smartphone, sedotto dalla magia dello schermo. Un ripiegamento fisico, oltre che mentale. Non siamo più abituati a guardarci intorno, non accade di incrociare gli sguardi. Ciascuno conserva la sua diversità, persino il mistero.
Marina Zinzani prova ad immaginare pensieri e sentimenti di qualcuno dei viaggiatori. Dietro ogni volto, può esserci una storia da conoscere, tutta da scoprire. E in cui ritrovare qualcosa di noi. Dopo le storie di Agnese, Sergio, Lucia, Enrico, Roberta, Vincenzo, Vittoria, Benedetta, Ettore, Francesca, Annalisa, Miriam, Piero, Lucrezia, Simona, Claudio, Elisa, ecco quella di Teresa

Amalia mi ha mandato un messaggio, non ho voglia di risponderle, non ho voglia di parlare con nessuno. Non sono in vena. Non c’è mai un momento di quiete nella mia vita, c’è sempre qualcosa che non va. Sono in balia di ogni problema, ho una fragilità che altri non hanno. Gli altri se ne fregano, non si fanno prendere dai problemi come me.
Quali sono i miei problemi, vai a spiegarlo. Cosa ti manca, mi dicono. Hai tutto, un marito, un lavoro, due figli. C’è gente che non ha niente di tutto questo, mi ha detto qualcuno. Il punto è che sono stupida io ad aprirmi delle volte, a spiegare quella sottile inquietudine che mi accompagna sempre, quella paura di non farcela, quella sensazione di essere al limite. Forse sono troppo sensibile, ma sono nata così, cosa ci posso fare. Uno non sceglie di esserlo o no. Il punto è che non si riesce a parlare di questi momenti difficili neanche con i propri cari.
Giovanni. Un marito che è preso già dai suoi problemi sul lavoro, viene a casa così stressato che quello che desidera è solo mangiare, stendersi qualche ora nel divano ed andare a letto. La conversazione latita spesso, si parla del più e del meno, dei figli, dei fatti di cronaca, ma in fondo cose banali. Si parla soprattutto dei figli, a che ora è uscito Nicola, a che ora è tornata Alessandra, se ho parlato con i professori. Già, la gestione dei ragazzi spetta soprattutto alla madre, si sa. 
Di cosa mi lamento quindi? Figuriamoci se la mia inquietudine la posso comunicare ai figli, non hanno tempo per queste cose. Hanno i loro amici e mille cose da fare, io non sono contemplata nella loro vita, a parte il fargli da mangiare, il lavare e lo stirare, il dargli la paghetta settimanale, per il resto io sono invisibile. O forse no, ma mi sento sola a volte. 
La domenica si esce con delle coppie ogni tanto, ma anche lì riesco poco a comunicare. Nel senso che si parla di questo, di quello, ma io faccio fatica ad aprirmi, e quelle volte che l’ho fatto ecco, mi è stato detto “cosa ti manca”, “che problemi ti fai”. E io a rispondere “nessuno, certo, sono solo un po’ stanca”. Uscita di emergenza. Certe cose devono restare chiuse. Va bene così. 
La fragilità è una cosa che ti porti dentro, che ti accompagna. O è sensibilità, non so. Lavorare a stretto contatto con il dolore ti cambia, ti prosciuga. Avverti la morte sempre vicina, sempre in agguato, beffarda, che si fa gioco di tutti. Essere un’infermiera significa essere testimone di questo, dentro corsie d’ospedale dove incrocio ogni giorno volti sofferenti, e devo interrogarmi su come posso sopravvivere a tutto questo, devo essere professionale accidenti, lo sapevo cosa significava diventare infermiera, sapevo cosa sarebbe accaduto.
Avrei fatto questo lavoro, in un ospedale, e in un ospedale non ci si va per divertirsi, ci si va per curarsi, e si è spesso in bilico, la morte si respira nell’aria. Lo sapevo fin da ragazza, da quando ho scelto questa strada, e allora di cosa mi lamento? Forse, inconsciamente, volevo aiutare gli altri, volevo un lavoro che mi permettesse di dare qualcosa. Dare qualcosa... Ma ora mi sento svuotata. Svuotata dalla sofferenza che vedo. 
Il punto è che le proprie debolezze uno se le porta dietro da tempo. Quando i genitori si separano, e in modo doloroso, la lacerazione è difficile da colmare, passeranno gli anni, ci si innamora, ci si crea una propria famiglia, ma quel vuoto è sempre lì, il vuoto di oggi richiama il vuoto di allora, è un evocatore che fa riemergere quella solitudine latente che appartiene al passato. E’ un vuoto che resta lì per sempre.
Mio fratello ha reagito chiudendosi a riccio, con un atteggiamento distaccato verso le persone, io ho reagito cercando di fare delle cose buone. Occuparmi di mio padre soprattutto, e anche di mia madre, pur non essendo in sintonia a volte. Occuparmi di qualcuno è stata la mia via di uscita, la sindrome della crocerossina, più o meno. 
Quella signora, Ilaria si chiamava, che mi strinse la mano forte in un momento difficile... Ero in crisi in quel periodo, c’erano anche problemi con una collega. Quella stretta di mano e il sorriso di quella donna esprimevano molte cose, pur senza parlare.
L’inquietudine è compagna, ne sono cosciente, devo accettarla. Ma forse mi può aiutare a comprendere il dolore degli altri. Posso cercare di migliorare le giornate a chi mi è accanto, a cominciare dalla mia famiglia, e anche in ospedale. Al diavolo la depressione latente. Un po’ di energia! Nutrirmi di cose belle. Non c’è una mostra a Palazzo Reale? Perché non ci vado? Se mi ricaricherò di bellezza potrò darne un po’ anche agli altri. Devo cambiare programma. Scendo adesso. Duomo.

Commenti

Post popolari in questo blog

👻 Varosha e il vuoto: la città fantasma di Cipro come specchio interiore

(Introduzione a Daniela Barone). Varosha non è solo un quartiere abbandonato di Famagosta, ma il simbolo di un trauma storico congelato all'estate del 1974. Tra le sue rovine silenziose e le spiagge un tempo meta del jet set, si nasconde il racconto della violenza e della perdita, ma anche una profonda lezione filosofica. Il suo status di "non luogo" si riflette nel vuoto interiore che, come esseri umani, siamo costretti ad affrontare.

📱 Dipendenza da notifiche e paura di restare fuori: perdersi qualcosa è una gioia

(Introduzione ad a.p.). L’iperconnessione asseconda il bisogno di controllo sulle cose e alimenta l’illusione che tutto, sentimenti e informazioni utili, sia davvero a portata di mano. Ma genera ansia e dipendenza. Questo ciclo vizioso è alimentato dalla chimica del nostro stesso cervello. Perché non pensare ad una "disconnessione felice" scoprendo il gusto di una maggiore libertà e della gioia di perdersi qualcosa?

⏳ Natale e la tirannia del presente: riscoprire l’attesa

(Introduzione ad a.p.). Abbiamo perso il senso del tempo, limitato al presente precario e fugace: occorre riscoprire il valore dell’attesa e della speranza, che hanno un significato religioso ma anche profondamente laico. L’iperconnessione e la continua ricerca di stimoli ci hanno reso schiavi di una visione frammentata, incapace di guardare oltre l'orizzonte immediato. Il Natale, con la sua simbologia, ci offre un antidoto a questa tirannia. • La corruzione del tempo (a.p.) ▪️ Quanti di noi, ogni momento, sono intenti a guardare il proprio cellulare? Immersi nella connessione perenne, con tutti e tutto, e dunque con niente? C’è l’ingordigia di cogliere qualsiasi aspetto della vita corrente, nell’illusione di viverla più intensamente che in ogni altro modo. Un’abbuffata di notizie, video, contatti con chiunque, senza sensi di colpa per questo sperdimento continuo del nostro esistere. Questo è il sintomo di una società dominata dalla "paura di restare fuori" e dalla ricerc...

🎵 Baby Gang e responsabilità: quando sceglievamo l’ultimo LP di Battiato

(Introduzione a Maria Cristina Capitoni). Di fronte agli episodi di cronaca che vedono protagonisti i giovani e le cosiddette "baby gang", la tendenza comune è cercare colpevoli esterni: la scuola, la famiglia, la noia. Ma è davvero solo una questione di mancati insegnamenti? In questo commento, l'autrice ci riporta alla realtà cruda degli anni '80, dimostrando che anche in contesti difficili, tra degrado e tentazioni, esiste sempre uno spazio sacro e inviolabile: quello della scelta individuale. Le inclinazioni dei giovani: gli insegnanti e le scelte dei ragazzi (Maria Cristina Capitoni) ▪️ La criminalità tra i giovani? Ovvero baby gang? Non è solo un problema di insegnamenti. Non c'è bisogno che un professore ti insegni che dar fuoco ad un barbone, massacrare di botte un tuo coetaneo non è cosa buona e giusta. Spesso poi questi "ragazzi" provengono da situazioni agiate, tanto che dichiarano di aver agito per noia. La mia giovinezza, erano gli anni ‘8...

Gli amanti di Marc Chagall, tra sogni volanti e la solitudine della realtà

(a.p. - INTRODUZIONE) ▪️ Fantasie popolari, figure volanti, personaggi solitari. Il presente, in Marc Chagall, è sempre trasfigurato in un sogno che richiama le suggestioni della sua infanzia, comunque felice nonostante le tristi condizioni degli ebrei russi, come lui, sotto lo zar. Colori liberi e brillanti accompagnano figure semplici e sinuose, superano i contorni dei corpi e si espandono sulla tela in forme fantastiche. Le sue opere sono dedicate all’amore e alla gioia di vivere, descrivono un mondo poetico che si nutre di ingenuità ed è ispirato alla fiaba, così profondamente radicata nella tradizione russa. (Marina Zinzani - TESTO) ▪️ Desideravo una casa, un luogo caldo ed accogliente in cui tornare la sera. Desideravo qualcuno a cui raccontare la mia giornata. Desideravo un grande albero, a Natale, pieno di luci e di regali. Desideravo una bambina che mi accogliesse buttandomi le braccia al collo. “Il mio papà!”: ecco le sue parole. Desideravo un luogo di vacanze, ma soprattutt...