martedì 20 febbraio 2024

Aleksei Navalny, la vita per un'idea

Nascono ancora in Russia eroi disposti a lottare ma è necessario ripensare il rapporto con le dittature


(Angelo Perrone) Dopo la notizia della morte di Aleksei Navalny, ci sono condanna, stupore e inquietudine. Nella tragedia di una morte annunciata, si avvertono partecipazione umana e solidarietà politica. Quest’uomo coraggioso si è battuto sino alla fine. 
Il cordoglio però non è sufficiente, serve una riflessione sulla società russa, amata per la cultura e martoriata dalle vicende storiche, e sul governo che l’opprime. Il sentimento di sconforto e tristezza alla fine è inadeguato.
«Spero che la reazione non sia solo questa, non sarebbe abbastanza», avverte preoccupata Marina Litvinenko, la vedova in esilio di Aleksander, che 18 anni fa moriva a Londra, avvelenato con il polonio dai sicari di Putin.
Ora la storia si ripete, non meno estrema e drammatica. A morire, è il principale oppositore di Putin in carcere da oltre tre anni con una condanna a diciannove, trasferito da gennaio in una colonia penale della Siberia, dove la temperatura è meno quaranta gradi. Non erano sufficienti le restrizioni comuni. 
Una cella di tre metri per due, dove di giorno è impossibile sdraiarsi perché il letto è ripiegato, e nella quale non possono essere tenuti oggetti personali di qualsiasi tipo, salvo un libro, una tazza e uno spazzolino. In tre anni di detenzione, trecento giorni di isolamento per motivi pretestuosi (un bottone della giubba non abbottonato, il mancato uso del patronimico per rivolgersi ad un ufficiale, e così via).
Per il resto, un’ora d’aria, ma da utilizzare a quella temperatura e in momenti assurdi della giornata. In una di queste passeggiate ristoratrici, sarebbe avvenuto il decesso di Navalny; per “cause naturali” secondo il regime. 
Siamo qui a discutere della morte “improvvisa” dell’uomo, delle ragioni che l’hanno resa possibile nonostante la sovraesposizione mediatica. Per tanti motivi, era un esito prevedibile ed annunciato, forse “voluto” dallo stesso Navalny, quando, sfidando gli avversari, decise il 17 gennaio del 2021 di tornare in patria dopo il tentativo di avvelenamento subìto durante un viaggio in Germania. 
Lui si vedeva come un leader della Russia e non accettava, per sconsiderata follia o coraggio estremo, di esserlo fuori dal suo paese. Doveva rientrarvi e stare con la sua gente. Forse sapeva di andare incontro ad un destino da martire e lo ha previsto, incarnando così un simbolo audace di libertà, oppure si è illuso che il regime non fosse così orribile e spietato.
In effetti, pochi pensavano che il regime potesse commettere l’azzardo di eliminare un esponente così in vista dell’opposizione. L’illusione che amplificare la sua voce in Occidente potesse salvargli la vita è stata contraddetta dalla realtà. Le dittature sono attraversate da una perversione intrinseca, refrattaria a qualsiasi sollecitazione esterna.
Eppure i segnali che potevano mettere in guardia l’Occidente erano tanti. Il nome di Navalny è solo l’ultimo di una lista nutrita di esponenti del dissenso russo, vittime di veleni, omicidi o incidenti: messi a tacere in tutti i modi possibili. La giornalista Anna Politkovkaja uccisa nel 2006. Il volto più noto dell’opposizione al regime, Boris Nemtsov, nel 2015. Sergei Magnitsky deceduto nel 2008 in carcere. L’oligarca Boris Berezovsky trovato morto nel 2013. 
Sono tanti gli avvisi che l’Occidente ha ignorato o minimizzato. Episodi ritenuti minori, derubricati a fatti quasi irrilevanti, incapaci di incidere sul canovaccio della diplomazia, costruito sull’illusione di una convivenza con la dittatura putiniana, magari intervallata – per salvarsi la coscienza - da riprovazioni di facciata e sanzioni effimere. 
La morte di Navalny dovrebbe aprire gli occhi agli ultimi illusi, ma è più prudente non sbilanciarsi sulle capacità dissuasive della Storia. Piuttosto, per chi si commuove di fronte al destino di sognatori, alla maniera di Navalny o prima della Politkovskaja, si prospetta un’altra possibilità, che diventa impegno doveroso: interrogarsi sulla società russa, e sulle speranze che vi sono nascoste. 
Un’impellenza vitale: è un popolo ripiegato su sé stesso, oppresso da gruppi di potere, perseguitato nei suoi figli più meritevoli, in cerca della forza di reagire. 
Per quanto la cosa richieda infinita fatica e sembri francamente illusoria, bisognerebbe confidare, nonostante la spietatezza del Cremlino, che quel mondo, in parte europeo, trovi, per vie misteriose e imprevedibili, il modo di inseguire il sogno democratico, che ha fatto tante vittime, ed oggi è amaramente infranto con la morte di quest’uomo.
Ci credeva Osip Mandelstam, il poeta russo morto nel gulag di Stalin. Aveva ragione lui. La Russia è davvero un posto strano. Un luogo che uccide i suoi figli migliori, e governato da gente come Stalin o Putin. Ma è anche la terra di tipi così diversi e coraggiosi come Osip Mandelstam, Anna Politovskaja e Aleksei Navalny.

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