mercoledì 25 settembre 2019

Maschere sulla scena

Sono interpretate per anni dagli stessi attori, le fiction come Il commissario Montalbano, Un posto al sole o Beautiful: una performance collettiva permanente in cui la realtà si confonde con la finzione che va in scena ogni volta

(ap*) Quella del commissario Montalbano di Andrea Camilleri è stata una serie televisiva molto seguita dal pubblico italiano, e lo è tuttora, come è dimostrato dal successo che accompagna, in queste settimane, anche la riproposizione delle puntate meno recenti di questa fortunata opera, prodotta dal 1999, e poi articolatasi in tante stagioni con decine di episodi. Venti anni di storie e di rappresentazioni pressoché continue. Con un pubblico fedelissimo che ha seguito le vicende del commissario più famoso non solo in Italia ma in più di venti paesi al mondo.
La critica ha costantemente elogiato il suo autore e sceneggiatore, indicato tra i più grandi scrittori del secolo scorso. Per il carattere dei personaggi, le ambientazioni, il linguaggio, la qualità delle storie, infine quel carattere senza tempo e senza confini delle vicende umane che accadono nell’immaginaria cittadina siciliana di Vigata, assunta a microcosmo esemplare della vita stessa e delle sue avventure. Alla maniera del piccolo paese di Macondo, inventato da Gabriel Garcia Marquez.
La serie del commissario Montalbano ha avuto la caratteristica di essere essa stessa in qualche modo “senza tempo” (almeno sino alla scomparsa di Camilleri, ora pare che l’autore abbia scritto un episodio “conclusivo” ancora in attesa di pubblicazione) perché articolata in numerose puntate che hanno il pregio di concludersi ogni volta in sé stesse, come fossero vicende autonome, ma di essere nello stesso tempo sequenze di una storia più ampia e sottile, una trama dal filo esile eppure visibile, che è appunto la storia di Vigata e dei personaggi tutti di quell’immaginario commissariato: malaffare e affetti, caratteri e inclinazioni, piccole e grandi avventure.
Un’umanità che nel suo piccolo vive mille peripezie, in cui tutti possiamo forse ritrovarci. Al punto che, senza alcuna stranezza, anzi del tutto logicamente, quelle storie, con i medesimi personaggi base, sono interpretate fin dall’inizio dagli stessi attori a cominciare dal protagonista Luca Zingaretti, per continuare con Fazio e Augello, e l’insostituibile Catarella. Certo, come vediamo in questi giorni, con alcuni anni di meno, e ci sorprende constatare come fossero più giovani rispetto ad oggi, segno del tanto tempo trascorso per loro, certo, ma anche per ciascuno di noi.
Quella del commissario Montalbano non è un caso insolito di “serie cinematografica” strutturata come insieme di episodi con gli stessi soggetti interpretati dalle medesime persone. Che magari nel frattempo erano bambini e sono diventati adolescenti, che un tempo erano adulti e sono invecchiati con i loro stessi personaggi. L’idea della performance collettiva “permanente“ anima un po’ tutte le “serie” televisive e cinematografiche. A prescindere ora dalla qualità dei testi, e dalla bravura degli attori.
In Italia, Un posto al sole, la serie ambientata a Napoli, partita dal 1996, e in onda quasi ogni giorno, seguitissima da un pubblico abbastanza eterogeneo, ha superato ampiamente le 5000 puntate, sempre con lo stesso gruppo di attori: una trama infinita di eventi, e di sviluppi, impossibile da riassumere, destinati a non concludersi mai, e perciò rivestiti di un alone di favola.
La soap opera americana Beautiful è in onda ininterrottamente addirittura da prima, dal 1987, trasmessa in cento paesi, finora 8000 puntate, e la più seguita al mondo: gli attori del nucleo storico hanno indossato i panni dei loro personaggi, da Ridge a Brooke, da Eric a Stephanie, per decine di anni, magari doppiati in Italia sempre dagli stessi, in una immedesimazione totale tra ruoli e voce, e tempi della narrazione.
Gli attori, nelle serie tv o cinematografiche, crescono e maturano con i loro personaggi, cambiano e si evolvono portando con loro i mutamenti; affrontano le avventure disegnate dal copione, ma spesso lo condizionano con i fatti della loro vita personale: escono e rientrano in scena a seconda di quanto accada loro nella vita privata, come gravidanze, divorzi, malattie, e nel frattempo la storia va comunque avanti senza ricadute. Il tempo del racconto spesso coincide con quello reale, sicché se si avvicina per lo spettatore il Natale, anche nella serie il momento è quello e le case del set sono addobbate a festa e si festeggia la ricorrenza.
Echi per nulla lontani della vita di tutti i giorni. Anzi tracce precise. Lo stesso linguaggio, senza concessioni al provincialismo, o al dialetto, si adegua alle evoluzioni sociali, alle mode del momento, assimila detti o fa proprie tematiche che sono quelle del presente. Non è spregiativo dirlo: c’è un aspetto per certi versi “impiegatizio” in questa pratica che nulla toglie alla qualità della interpretazione ma anzi la caratterizza.
Ti prepari ogni giorno oppure ogni stagione, non importa il tipo di continuità, per recitare quel ruolo: vivi per molto tempo o spesso nello stesso luogo dove si svolgono i fatti, la tua vita di ogni giorno è preparazione del ruolo o delle scene del giorno seguente, o della stagione successiva, magari frequenti nel privato la stessa trattoria dove reciti, o ti fai il bagno in quel mare di Vigata. Vivi come il tuo personaggio prima di rappresentarlo.
La “rappresentazione” assume caratteri più pregnanti, lo spettacolo è la vita stessa degli attori, la finzione finisce per coincidere con la realtà e questa dà forma alla stessa recitazione, la rende se possibile più autentica. Sembra a volte persino di vedere nella recitazione delle sfumature che rimandano alle vicende degli attori: dolori, gioie, eventi importanti. Come distinguere i due piani, quello del privato e del pubblico? Riuscire a dire la verità nostra, come spettatori ma anche come attori, rispetto a quella dei personaggi e delle storie rappresentate?
Tutto ciò potrebbe scandalizzarci se nella vita fosse davvero assente una certa dose di recitazione, se la doppiezza non attraversasse il destino degli individui, se infine la maschera ci fosse del tutto estranea. Eppure non può mancare il dubbio: chi siamo davvero? Siamo più veri quando siamo noi stessi o quando rappresentiamo altro?

* Leggi anche su La Voce di New York:
L’idea della performance collettiva “permanente“ anima tutte le “serie” televisive e cinematografiche. A prescindere dalla loro qualità

Nessun commento:

Posta un commento