lunedì 10 ottobre 2022

La stagione Meloni

Con la destra radicale, una versione nuova del populismo

(Il testo integrale su La Voce di New York)

(Angelo Perrone) Il successo di Giorgia Meloni e il governo che si preannuncia segnalano un cambio di rotta nel paese. L’ecatombe di nomi eccellenti è l’immagine esteriore di una svolta. Il parlamento si trasforma, annovera volti nuovi ma fa anche resuscitare il passato più compromesso, indica un nuovo equilibrio tra destra e sinistra.
In una contesa difficile, e di bassa qualità, è lungo l’elenco dei perdenti, sconfitti sonoramente o di poco. Per lo più nel centro sinistra, a causa di una legge elettorale che, senza essere compiutamente maggioritaria, produce solo effetti perversi sulla rappresentanza, e dell’impetuosa avanzata della destra radicale.
Quanto al personale politico vittorioso, dominano vecchie glorie, veterani invecchiati di tante battaglie perse e pronti alla rivincita oppure fulminati dall’emergente verbo estremista. Costoro si ritrovano in mezzo alle new entry, soggetti sconosciuti, novizi che velocemente mettono in sordina origini storiche e vessilli consunti, euforici per l’impresa di essere in prima fila.
Riemergono le vecchie parole d’ordine su fisco, immigrazione, diritti civili, famiglia e aborto, rapporti con l’Europa, che, davanti a tragedie come pandemia, guerra in Ucraina, crisi energetica e ambientale, sembravano obsolete, cadute nel dimenticatoio. Si sperimenta il velo della moderazione verbale per non spaventare e preparare le mosse successive.
Tra il vecchio, già sperimentato con insuccesso, e il nuovo insicuro, fortemente radicalizzato a destra, si colloca, ancora una volta imponente, il macigno dell’astensione, che ormai ha raggiunto la percentuale di circa il 40% degli elettori. Dal 2008 mancano all’appello 11 milioni di voti. Pochi lo ricordano e l’argomento verrà presto riposto tra le cianfrusaglie. Non hanno interesse a richiamarlo i vincitori, soddisfatti per l’avanzata, anche se registrata con un minor numero di partecipanti.
Di più ne accennano gli sconfitti, nel centro sinistra, ma con la vena di nostalgia che vorrebbe intenerire mentre fa rabbia. Costoro vogliono scorgere tra i tanti astenuti dei sostenitori mancati, magari solo di poco, illudendosi solo per questo di poterli arruolare la prossima volta. Dimenticano gli odierni perdenti di interrogarsi sulle ragioni del mancato coinvolgimento di tanti astenuti nel rito principale della democrazia.
Intanto, tra i perdenti, si trova il modo di gigionare per evitare di farsi troppe domande, trastullandosi con le percentuali risicate ottenute, misere in vero rispetto ad ambizioni e necessità, ma gelosamente rivendicate, perché utili in futuro. Magari serviranno a trincerarsi nella difesa di qualche misura (come il reddito di cittadinanza) oppure a giocare un ruolo se, trascorsa la festa iniziale, si prospettasse una qualche stagione degli aggiustamenti.
Una di quelle fasi dove svolgere abili manovre di vertice, da sublimare con la prospettiva nobile dei governi tecnici. Ci si accontenta d’essere carta di riserva una volta che sarà emersa l’incapacità dei nuovi arrivati. C’è sempre una sapienza di palazzo che sopravanza rispetto alla deteriore emotività popolare. Un’intelligenza che solo noi padroneggiamo, sconosciuta al popolino che non ci capisce e non ci apprezza.
Un’interpretazione così spregiativa dell’astensione trascura il fatto che il fenomeno ha varie origini, e che non tutti gli astenuti sono uguali. Ci sono quelli che al voto non sono mai andati per disinteresse. Quelli che non credono alla Stato e alle istituzioni. Quelli che non sanno per chi votare, disillusi e scettici. Che magari si rifugiano nel narcisismo dei social perché la croce sulla scheda è troppo e quegli altri che diffidano in toto del potere pubblico. Del resto non è così chiaro che è inutile andare a votare? La politica è ridotta a “sistema”, impenetrabile e distante, un gioco perverso al quale non conviene nemmeno partecipare. 
Se coloro che vanno a votare si illudono invece di essere completamente refrattari a questa sindrome, che mescola sfiducia e amarezza, ebbene proprio la lettura dei passaggi elettorali più recenti li smentisce sonoramente. Inutile interrogarsi sul perché non riesce ad affermarsi la buona politica, la fatica della costruzione quotidiana della democrazia, se la gara, esacerbata e vittoriosa, è tra populismi di segno diverso. Senza alternative dignitose. L’ottimismo imprenditoriale del taumaturgo Berlusconi, la xenofobia della Lega, l’assistenzialismo consolatorio e l’anti-elitismo dei 5 Stelle resuscitati da Conte grazie al Sud, il sovranismo della sorella Meloni. 
Difficile sottrarsi alla suggestione di vedere nel voto all’estrema destra, l’unica non coinvolta nel governo recente del paese, un’altra (l’ultima?) carta del mazzo da sperimentare per uscire dall’impasse. La politica è continua ricerca di un demiurgo, un salvatore della patria, un leader, una forza, cui affidare le sorti incerte del paese. 
Nella delusione senza fine, pur di gettare il cuore oltre l’ostacolo, ci vogliono coraggio e disinvoltura. Si è davvero disposti a tutto, o costretti a farlo, tante sono la speranza e la disperazione. Si può arrivare a mostrare indifferenza verso il fascismo storico, giudicare secondario in Fratelli d’Italia quel bagaglio di memorie, invero mai rimosso, rimasto paesaggio sentimentale, e non esigere – qualunque sia la provenienza - l’adesione ai principi della democrazia liberale, ai suoi istituti, alle sue coordinate strategiche fatte di adesione ai valori dell’Occidente, in contrapposizione agli strani esperimenti di democrazia autoritaria in corso nell’Ungheria di Orban. 
Il congedo che si preannuncia riguarda le persone bocciate dal voto e dall’inadeguatezza, pochi sono i rimpianti, quanto soprattutto le politiche di questi anni, che non sono riuscite a costruire un’alternativa a questa destra, qualcosa di credibile e affascinante per un popolo che ha bisogno di tornare ad avere fiducia nelle istituzioni.

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