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sabato 28 dicembre 2019

Il bandolo e la matassa aggrovigliata

Scrivere è un  “gioco” per conoscere la realtà e scoprire il mondo. Ma nella letteratura, i risultati non corrispondono sempre alle intenzioni. Meglio parlare dello stile?

di Davide Morelli

Per cosa si scrive, indipendentemente dal risultato? Per sfogo oppure per diletto. Per cogliere degli stati di animo o per fare delle istantanee della realtà. Per sublimare gli impulsi sessuali o il proprio disagio esistenziale. Per lasciare una traccia. Per conquistare una ragazza. Per diventare famosi. Per fare soldi. Per sbarcare meglio il lunario. Oppure per mettere ordine al proprio disordine o al disordine del mondo. Ognuno ha il suo motivo o i suoi motivi.
Scrivere forse è allo stesso tempo un modo per distrarsi dal pensiero della morte e un modo per prepararsi alla morte. Forse aveva ragione il grande Giorgio Manganelli, ovvero che il linguaggio è un gioco, un sempiterno "come se". La vera letteratura può essere senza trama né macchinazione. La cosa importante è che abbia uno stile. Pochissimi lo hanno. Siamo molti  scriventi ma di scrittori ne esistono davvero pochi. Siamo molti versificatori ma pochissimi sono i poeti. Lo testimonia il fatto che pochi finiscono nei manuali di letteratura.
Per avere uno stile bisogna avere una visione del mondo e non è facile avere una visione del mondo, vista la complessità della società odierna. Ad esempio si parla tanto di capacità di intendere e di volere, di pieno possesso delle proprie facoltà psichiche. Ma forse oggi i giovani acquisiscono la capacità di intendere prima di un tempo, sollecitati come sono da molti stimoli cognitivi. Eppure allo stesso tempo acquisiscono forse la capacità di volere dopo rispetto ad un tempo perché il mondo si è fatto più difficile, più eterogeneo e di più difficile comprensione.
Gadda parla di "grommero". Montale parla di "matassa senza bandolo". La realtà già nel Novecento diviene garbuglio, groviglio inestricabile. Le scienze umane teorizzano la razionalità limitata. Immaginiamoci quindi quanto sia difficile avere uno stile veramente originale e dire cose nuove per uno scrittore! Ogni scrittore forse è sempre indeciso se provare a scrivere un libro totale (un'opera onnicomprensiva che descriva il mondo intero) oppure un brano brevissimo in cui viene descritto un particolare apparentemente insignificante ma che si rivela alla fine essenziale, fondamentale.
Allo stesso modo ci sono persone che cercano in amore l'esperienza totalizzante che duri tutta una vita ed  altre che inseguono il carpe diem. Per quale fine un essere umano scrive? In Meditazione milanese Gadda scrive che «gli n tendono agli n+1 ma non sanno a cosa tendono, ché, se lo sapessero, gli n+1 non esisterebbero già". L'uomo forse tende ad n+2, ad n+3, ad n+infinito.
Questo significa che gli uomini vogliono progredire infinitamente la loro conoscenza. L'uomo vuole incrementare il sapere continuamente. Scrivere forse per chi ha pretese significa conoscere, sapere. Ecco allora spiegato perché molti scrittori del Novecento hanno dato voce al molteplice, hanno cercato di dare forma all'informe, hanno cercato di volgersi agli infiniti possibili. Nel Novecento fiorisce la letteratura combinatoria come quella di Perec e di Calvino. Scrivere significa allora cercare di contemplare tutta la casistica degli eventi e delle dinamiche umane.
Ma quando si fa della letteratura un sistema i problemi sono due: 1) bisogna definire cosa è un sistema e non è affatto facile. 2) bisogna che il sistema sia aperto per accogliere tutti i casi e le varianti del mondo. Il sistema chiuso significherebbe caos ed alla fine implosione. In fondo lo stesso Chomsky ha messo in rilievo la creatività del linguaggio umano, capace di produrre parole all'infinito. Forse ciò significa che qualsiasi essere umano è un sistema aperto. Sicuramente il linguaggio umano è un mirabile congegno dalle combinazioni inesauribili.
Ma sempre riguardo ai fini c'è da considerare la loro eterogenesi, secondo cui ci possono sempre essere conseguenze impreviste delle azioni umane. A volte i vizi privati possono diventare pubbliche virtù come ne La favola delle api di Mandeville. Altre volte si parte con la nobile intenzione dell'aspirazione all'uguaglianza e si finisce con le dittature comuniste sanguinarie. Il filosofo Augusto Del Noce parlava di eterogenesi dei fini per quanto riguarda il marxismo.
Si sa sempre dove si parte ma non si sa mai dove si arriva quando si pensa o si fa qualcosa.  Un conto è l'intenzione ed un altro è il risultato. Lo stesso Zeno nel celebre romanzo di Svevo fa centro alla fine ma non nei bersagli mirati.  Questo probabilmente succede anche per l'arte. Fenoglio in un suo aforisma definiva la  scrittura come un "proiettile senza bersaglio". Che sia questo il destino dell'uomo contemporaneo?

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