mercoledì 21 settembre 2016

La vita in un incontro

Racconto di
Paolo Brondi

Luca, professionista affermato e sempre curioso di cose inconsuete, si era trovato quel giorno a rovistare cassetti per rintracciare un nome che in mente rullava da quando aveva curato una paziente dal nome Norina.


Un nome inconsueto negli ultimi spazi del ‘900, ma frequente a sentirsi nel decennio oltre gli anni dell’ ultima guerra. Un nome che in memoria Luca metteva a confronto con altre voci, altri suoni sempre più cari, via via che il ricordo si faceva più vero.  
Giolì, Giolì: era un tintinnio di suoni più incalzante fra quelli ricercati e trovati. Una fanciulla bionda, delicata nell’azzurro degli occhi su di lui accarezzanti ed in parole ridenti che, allora, lo sorprendevano a sorridere e a sentire dentro flussi di piacevoli formicolii.
Con lei, nella sua  prima giovinezza, se ne andava in segreto nei viottoli della campagna oltre il paese, tracciati all’interno di pergolati di viti, o di peschi, o di susini, e con quell’innocenza di modi che il primo innamoramento consentiva in tempi in cui il consumismo di tutto, anche dei corpi, non aveva ancora fatto sentire le sue ali funeste.


La felicità degli incontri, attesa con salutare e provvido differimento del piacere in ogni giorno di scuola, per condivisi doveri da assolvere, veniva ad esplodere nel sabato pomeriggio e nelle domeniche: in quegli spazi, le ore si riempivano di tempi più lunghi e le fresche parole d’amore sussurrate da Giolì, abbozzate da Luca e i primi timidi baci, dal sapore di rose e violette,  si mescolavano alle struggenti note delle fisarmoniche, quando seduti sul poggio di uno dei viottoli che portava alla Chiesa, avevano alla spalle la collina vicina, ove era la pista da ballo.
Erano suoni e musiche che lui, più tardi, avrebbe recuperato, raccolti in musicassette, ascoltate in autoradio, durante i suoi numerosi viaggi: Carnevale di Venezia, Chiribibi, Gelosia, Tango delle rose, Sul bel Danubio blu, Onde del Danubio, Valzer di mezzanotte, la Cumparsita, Tango del mare, i Pattinatori, la Palma, Espana, Speranze perdute, Violino tzigano, la Vedova allegra.
I giovani di allora, tra il ‘50 e il ‘60, ballavano all’aperto, appena sbocciata la primavera, mescolati a chi giovane non era più, ma aveva ancora voci suadenti nel cuore, e la loro danza, ritmata nei tempi delle fisarmoniche, era gioia dei corpi e ali per gli affetti.
E quando il sole annunciava la sera, Giolì pregava Luca di riaccompagnarla a casa: “è tardi. Devo tornare a casa! Mio padre mi aspetta” ripeteva con una ansia sconosciuta, più tardi, ai giovani dagli anni ’60 in poi, progressivamente disabituati a misurarsi con la poesia dei tramonti per divenire folla delle notti illuminate dai neon.


E, andando per via gli stringeva la mano.. si alzava al suo viso baciandolo e mormorando “ ti amo… ora… domani… sempre..”.
Luca accarezzava con gli occhi, le mani, le labbra della sua dolce Giolì fiducioso di una permanenza non effimera entro di sé del vincolo con lei..
E sul finir di un’estate del 1963, quando ancora le lucciole timidamente lampeggiavano sul prato profumato di verbena, Giolì si abbandonò a Luca donandogli, petalo dopo petalo, la rosa verginale di tutto il suo amore. Una settimana, un mese, di intensa passione, alla luce pura, splendente, di un innamoramento fra due giovani, tutti immersi in un tempo senza tempo.
Ma, in un giorno di autunno avanzato, pieno di colori e di foglie volanti sullo scherzo del vento, Luca aspettò a lungo la sua amata Giolì .
L’indomani venne a sapere che il padre di Giolì, funzionario della prefettura, era stato trasferito e tutta la famiglia lo aveva seguito.
L’ira lo prese e la bruciante delusione sembrò spezzare il circuito amoroso e vincente dei giorni d’estate. Si arrovellava e si chiedeva angosciato perché lei non gli aveva annunciato quella partenza; perché non lo aveva cercato, per salutarlo, per baciarlo ancora una volta, per dirgli un arrivederci.


L’orgoglio giovanile lo indusse al silenzio per mesi e mesi: poi la rivincita dell’amore lo portò a conoscere la forza della nostalgia, ove si tuffò con tutto il romanticismo dei suoi anni.
Prese allora a scrivere poesie indirizzate alla Prefettura di Milano, all’attenzione della signorina Giolì, figlia del Viceprefetto Martini, non osando piombarle vicino prendendo un treno per raggiungerla, come gli amici continuavano a suggerirgli.
Luca aveva conservato, nel fondo di un cassetto, alcune di quelle poesie che avevano ora il giallo del tempo ed il sapore di uno spazio irrimediabilmente diviso. Il tono era questo:


Distacco
In questo svanire di te
invano
tace memoria
dell’ incanto spezzato
Nell’ultima luce di sole
Sospira su me il profumo…
di te nel vuoto di questo
mio cuore

Memoria
Ricordo, Giolì, i nostri
baci nell’alba
di un giorno di sempre
E tu nei miei occhi
Luce splendente
del nostro futuro

Un attimo..
Ho visto danzanti parole
 Su una pietra profumata di mare
Se in tutti i tuoi attimi
in un attimo…….
quell’attimo mi penserai…
Io ti sto pensando…..”
Stride un gabbiano…
E sull’onda più alta
Scivola via……
Così è or la mia vita….
Un grido….una poesia…



Nulla più seppe di Giolì e delle sue poesie: alcuna risposta mai gli arrivò da Milano. Né lui fece più alcun tentativo di ritrovarla. Alla nostalgia subentrò la delusione e, poi, la vita lo prese nel turbinio degli studi, della laurea, della professione che ora lo vedeva primario medico e docente in Università.

Ma la freccia del tempo, non sempre diretta in avanti, nel fargli incontrare la paziente Norina, dopo non molti spazi dalla recuperata memoria di quel suo primo innamoramento, lo guidò per strade rinomate, Via della Spiga, Milano, quando in città si trovò per un ennesimo Convegno di Medicina.
Passeggiando per quella via, specchiata in lucenti e preziose vetrine e folta di passi lenti, ammiranti le bellezze della moda del tempo, gli parve di sentire d’intorno un profumo radicato in memoria.
Uno choc, uno smarrimento e il profumo più lontano, più vicino lo orientava verso una figura di donna che avanti a lui camminava con passo danzante.
Il livello della emozione cresceva, saliva, saliva, fino a condensarsi in sonora evocazione: “Giolì!?
La donna si voltò a guardare quell’uomo dallo sguardo adorante in quel volto interessante per non ovvia beltà che sempre aveva visto e ammirato in una fotografia di casa.

Mi consenta, signore, non sono Giolì, ma il mio nome è Giulia.. unica figlia di Giolì”. 
Tutto in sé si riannodò e tutto in un istante si svolse, la trasse a sé, si abbracciarono con un abbraccio teneramente struggente e piansero insieme come chi si riconosce vivo dopo un naufragio.

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