mercoledì 23 agosto 2017

Una notte d'estate

Al termine di una notte afosa, un sussulto provoca un improvviso risveglio e nel breve tempo che precede l’alba si affollano i ricordi di una vita che apparivano nascosti nella memoria

Racconto
di Angelo Perrone

Ebbe quasi un sussulto e si alzò di colpo dal letto poi, barcollando nel buio, si mise a sedere sulla poltrona, vicino alla finestra che dava sul grande viale sotto casa. Rimase per qualche attimo con gli occhi chiusi.
La porta della stanza, che aveva lasciato socchiusa in quella notte afosa d’estate, nella speranza che il passaggio dell’aria potesse dargli refrigerio, prese a cigolare, forse investita da un colpo di vento che improvvisamente passò attraverso la finestra spalancata. 
Giancarlo non si infastidì per il rumore, ma anzi provò una sensazione di sollievo, l’aria si stava finalmente rinfrescando dopo l’afa di tutta la giornata, diventava ora quasi più leggera, e lui avrebbe potuto forse approfittarne per riprendere il sonno, nelle poche ore che mancavano al mattino. Allungò le gambe davanti a sé, respirò profondamente, e chiuse gli occhi senza pensare.
Nel caldo torrido di quelle giornate, aspettava impaziente il tardo pomeriggio e, al termine della giornata, cercava ristoro nei parchi della città, dove faceva lunghe passeggiate, assaporando, felice come un ragazzino, la brezza che spirava a quell’ora.
Fra tutti, preferiva Villa Sciarra, sopra Trastevere, dove il “ponentino”, all’ora del crepuscolo estivo, che precedeva di poco il momento della cena, si levava in modo lieve, e pieno di maliziosa complicità, e ne avvolgeva il viso con leggerezza, quasi rivolgendogli una tenera incerta carezza.
Ora che era in pensione e aveva più tempo, raggiungeva a volte di buon mattino un tratto di spiaggia a pochi chilometri da Roma, dove spesso, anche d’estate, il vento non dava tregua e, soprattutto nelle prime ore del giorno, scagliava onde impetuose contro la sabbia sollevandola e portandola a ridosso delle prime case dei pescatori. Camminava spedito sulla rena bagnata e gli piaceva sentire sul viso il vento forte che arrivava dal mare.
Persino d’inverno, peraltro a Roma mai troppo rigido, quando le giornate si faceva più lunghe, usciva spesso di casa e si tratteneva fuori, camminando a passo svelto nei viali lungo il Tevere, tra mulinelli di foglie secche.
Provava un insolito appagamento e non sapeva spiegarsene il motivo. Cercava di ritornare indietro nel tempo, sino agli anni dell'infanzia, per darsi una ragione di questo indefinibile sentore, ma i frammenti della memoria erano assai vaghi, e non riusciva a mettere a fuoco un episodio preciso cui collegare il suo stato d’animo presente.
Gli veniva in mente per esempio quando suo padre, la domenica, lo accompagnava nella piazza vicino casa, nel quartiere Prati, dove veniva  montata una grande giostra con i seggiolini colorati che dondolavano da un’alta piattaforma rotonda piena di luci splendenti.
Per raggiungere quei giochi, doveva percorrere alcune centinaia di metri lungo un grande viale circondato da alte querce. Gli era capitato spesso di indugiare a percorrere quella strada attratto dal manto di foglie che ricopriva l’asfalto in autunno.
Il padre lo faceva salire su un seggiolino e, lui, con le piccole mani strette ai sostegni di ferro, aspettava che la giostra iniziasse il suo giro. Il seggiolino, sollevandosi da terra, cominciava a ruotare sino a che la velocità lo faceva muovere perpendicolarmente al terreno. Egli sentiva che il corpo veniva proiettato lontano, mentre il vento gli tagliava la faccia.
Giancarlo, molti anni dopo, ricordava bene quanto, da piccolo, aveva desiderato andare a quelle giostre montate alla fine del lungo viale, ma non poteva dimenticare nemmeno che in quei brevi momenti, quando il seggiolino volava veloce in alto, la gioia si intrecciava ad una paura che gli afferrava il piccolo cuore, e perciò non riusciva a collegare le sensazioni di oggi a quelle di allora.
All'improvviso, mentre il pensiero silenzioso scorreva lontano, un colpo di freni e uno schianto, provenienti dalla strada, destarono Giancarlo. Egli, alzatosi dalla poltrona, si precipitò alla finestra. Un giovane, caduto dal ciclomotore, era disteso a terra in prossimità del marciapiede, e cercava di fermare con le mani il sangue che usciva copioso da una ferita alla gamba destra.
Le ginocchia, certo! Un attimo fu sufficiente per tornare indietro nel tempo. Come aveva potuto dimenticare il sangue che era uscito quella volta dalle sue ginocchia? Entrambe sanguinanti e sporche di terriccio, in un giorno di fine estate di tanti anni prima.
Era appena adolescente e il padre gli aveva regalato la bicicletta che sognava, quella da uomo, con le ruote grandi. Era di colore nero, con un sedile grande, da passeggio. Sarebbe stato difficile, con le gambe da fanciullo, pedalare su una bicicletta così alta, eppure Giancarlo, appena la vide, non ebbe esitazioni, si gettò su di essa, e, stando appena a cavalcioni della canna, fece incredibili scorribande per tutto il quartiere.
Non desistette neppure quando, in una curva troppo stretta, cadde sui sampietrini e si sbucciò un ginocchio. Così, dopo aver legato alla meglio il fazzoletto intorno alla gamba, senza riuscire peraltro a fermare il sangue, continuò a gironzolare per qualche ora.
Ma dopo poco, instabile sulla grande bicicletta, Giancarlo rotolò nuovamente a terra, sfregandosi in modo più grave l'altro ginocchio. Anche allora non pensò che la bicicletta fosse troppo grande per lui né che avesse commesso qualche errore di guida, sospettò che la ragione dell’accaduto fosse solo quella di aver incrociato qualche punto sconnesso della strada.
Però, stavolta, con tutte e due le ginocchia ferite, non poté rimettersi a cavalcioni né in sella, né riprendere le sue corse; allora a piedi impugnò il manubrio, si appoggiò ad esso e si incamminò mestamente verso la casa che per fortuna era abbastanza vicina.
Egli abitava in un casolare, oggi demolito, alla periferia della città, una vecchia costruzione a due piani, con le tegole rosse, i muri qua e là sberciati, e una grande aia davanti.
Man mano che si avvicinava, le ginocchia gli bruciavano sempre più a causa del sangue che sgorgava dalle ferite sporche di terra e sentiva un forte dolore. Appena fu nell'aia, abbandonò la bicicletta, e, dopo aver sommariamente pulito le ferite con l’acqua della fontanella, si stese supino, con le ginocchia ferite rivolte in alto, su una vecchia tavola posta sopra i gradini dell’edificio.
Sudato, si lasciò andare, stanco per la fatica e con quel bruciore alle ginocchia che non gli dava pace, quando sentì, dapprima in viso e poi sulle gambe, la brezza leggera della sera.
Provò un sollievo inaspettato, come se la stanchezza fosse svanita e le ginocchia non ardessero più. Rimase lì, su quella tavola, con il viso rivolto verso il cielo, per un tempo che non seppe calcolare, rinfrancato da quel soffio di vento che lo raggiungeva e non gli faceva più sentire il dolore alle ginocchia.
Giancarlo era sempre affacciato alla finestra, con lo sguardo verso il marciapiede di fronte, dove il ragazzo era caduto dal motorino. Vide che non era accaduto nulla di grave, perché il giovane si era rialzato e si stava allontanando.
Rasserenato, si girò, dirigendosi verso il letto. Quando fu al centro della stanza, si fermò un attimo ad inseguire un pensiero lontano che aveva attraversato la sua mente, e gustò a pieni polmoni l'aria fresca della notte che gli arrivava dalla finestra.
Poi, si sdraiò lentamente, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé, si girò di spalle, appoggiò la testa da un lato, e si lasciò andare. Proprio allora, oltre la finestra, cominciavano a diradarsi le ombre della notte e un leggero bagliore filtrava tra i grandi rami degli alberi davanti casa.

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