martedì 11 aprile 2017

Piccolo Miki

Il cagnolino, l’uomo e l’amicizia
Il rapporto tra l’uomo e un piccolo cane bianco e nero, dopo il suo inatteso ingresso in famiglia. Una convivenza ricca di simpatia, allegria e affetto. Sino all’ultimo saluto, il più triste

(Angelo Perrone) «Verrà a vivere da noi», così all’improvviso seppi la notizia e non la presi affatto bene, ero sorpreso e contrariato. Successe diciassette anni fa, d’inverno, verso la fine di febbraio. Da poco, avevo una casa nuova dove andare ad abitare. Tu, avevi due mesi di vita, di colore bianco e nero, una razza indefinita, eri in cerca di fortuna, e venivi da una cucciolata numerosa. «Perché la gente fa filiare le cagne se non sa come gestire le cose?», avevo pensato dentro di me, preso dalla stizza. E ridicoli tutti quelli che dicono quella frase fatta: «Il cane migliore amico dell’uomo». Quando mai.
All’annuncio, provai ad oppormi energicamente: «Non mi piacciono i cani, poi sporcano in casa, e infine richiedono tempo, e noi non ne abbiamo affatto». Argomenti solidi, così mi sembrarono, mi appellavo alla ragione: «come si fa a portarlo fuori due-tre volte al giorno?»; giocavo la carta del sentimento: «contano anche le mie preferenze».
Non servì a nulla, non avevo capito che la decisione era stata già presa. Lo avevi fatto anche tu vedendoci? Le mie frasi furono senza mordente, stonate, un balbettio inefficace. Persino l’ultima sparata che tentai alla fine, la più ingenua di tutte, ebbe la stessa utilità della mossa di uno che agita le braccia mentre sta per affogare e nessuno è lì vicino ad aiutarti. «Non ha nemmeno un nome», balbettai quasi a voler significare che si trattava di una cosa da nulla, che non meritava né attenzione né cura, ce ne potevamo disinteressare.
Fu la mossa più sciocca e sbagliata che potessi immaginare, come quando si muove un pedone e l’avversario ti risponde dandoti scacco matto. «Si chiama Miki», fu la risposta secca e decisa, altra decisione già presa, che segnò il mio tracollo definitivo. E pure il tuo ingresso, caro Miki, nella nostra casa e nella mia vita.
Capii subito il tuo caratterino. Non mi riferisco al fatto che per fare la pipì alzavi la zampetta destra accanto al mobile fine ‘800 che avevo appena acquistato. O al fatto che aspettavi a mangiare le tue crocchette per vedere se avanzava qualcosa di più gustoso, come gli ossicini di maiale, la tua passione.
Piuttosto alludo proprio a quel giorno di marzo nella strada davanti casa, anche se so che non vuoi sentirtelo dire. Mi ero incaponito che sarei riuscito a insegnarti delle buone regole di comportamento, ispirate, manco a dirlo, ai principi di “convivenza sociale” che ritenevo validi anche per il mondo canino, ovvero quelli di libertà e responsabilità, un binomio inscindibile e vincente.
In una parola ti tolsi il collarino, convinto che, conoscendoci ormai, mi avresti obbedito facilmente, «basterà un richiamo, un fischio e mi segui», mi dissi fiducioso. Come fanno tutti i cani normali e ben educati. Non ti avevo ancora conosciuto bene, e non immaginavo allora l’energia, la curiosità, l’intraprendenza che ti avrebbero accompagnato per tutta la vita. O quasi sempre, diciamo fino a pochi giorni fa.
Insomma quel giorno camminavamo insieme, tu senza collarino appunto, verso il prato, recintato, accanto a casa nostra. Avresti fatto una lunga corsa come poi ti è capitato mille volte quando ti ho lasciato libero in zone sicure: sui sentieri di montagna in Garfagnana, o sulle spiagge deserte in Sardegna. Non c’erano ostacoli che ti fermassero, quando c’era da correre; non ti preoccupavano né il caldo afoso né la neve. Alzavi un polverone con quelle zampette. Ti ho visto, tu piccolino, affondare nella neve alta e riemergere, come se niente fosse, saltellando.
Quando era il momento, abbassavi le orecchie stringendole al muso, ti chinavi sulle zampe, così il baricentro del corpo scendeva rasoterra, e potevi sfidare il vento, sembravi una Ferrari lanciata in pista all’inseguimento dell’avversario, proiettata vittoriosa verso il traguardo. E partivi di slancio, sparendo alla vista, dietro un albero oppure oltre una roccia.
Invece quel giorno, appena libero dal collare, vedesti dall’altra parte della strada una cagnolina deliziosa che faceva il suo per attrarre la tua attenzione. Scodinzolava e aveva uno strano fiocchetto al collo. Non ci pensasti due volte ed io non feci in tempo a frenarti. Ti lanciasti a modo tuo in mezzo alla strada per raggiungerla.
Non avevi paura di nulla, volevi sempre giocare, non passava occasione che ti fermassi a curiosare quando vedevi qualcosa di strano, non c’era rumore o movimento che ti sfuggissero, i ciclisti poi erano la tua passione, li avresti inseguiti ovunque abbaiando di felicità. Però ti capitava anche di frenare all’improvviso, quasi un ripensamento, una verifica, chissà, quando non avevi nulla davanti a te se non il silenzio del bosco: ti giravi per controllare che ti seguissi, che reggessi il tuo passo, forse che non ti lasciassi da solo. Volevi sempre stare in compagnia, e, per attirare la mia attenzione, fingevi di abbaiarmi e di addentarmi una caviglia, ma il tuo morso era così cauto e prudente che non mi avresti mai fatto del male. Oppure mettevi il muso sotto la mano, era un modo di dirmi: «accarezzami un po’».
Così ti piaceva giocare con chiunque, allegramente.
Lo avresti fatto anche quella volta, con la cagnolina intraprendente. Ma passò in quel momento una macchina e tu ti ritrovasti con il muso contro la fiancata, senza nemmeno sapere come. Un colpo tremendo, mi parve, dal rumore e anche dal tuo urlo, «è morto», temetti dentro di me. Ma non facesti passare neanche un secondo, l’urlo cessò subito, sembrava che non ti fossi fatto assolutamente nulla, meno male che quell’antipatico di autista si era tolto di mezzo in fretta così potevi riprendere la corsa. Continuasti a correre dall’altra parte della strada, raggiungesti la cagnolina e cominciasti a giocare con lei girandole intorno ad alta velocità e mordicchiandole la coda.
Da allora, diciassette anni e una raccolta di ricordi.
Non immaginavo di portarti in montagna l’altro giorno. Per l’ultima volta. Ho incrociato, lungo la strada, alcuni ciclisti ma correvano tranquilli e nulla li disturbava. In macchina c’era uno strano silenzio, mancava il tuo abbaiare a farmi compagnia nel tragitto. Sentivo a volte il suono della campanellina celeste, quella che ti avevo messa al collo dopo lo spavento preso tempo addietro quando ti eri smarrito in città uscendo di nascosto dal giardino di casa. Ora suonava a tratti, ma solo per i sobbalzi dell’auto.
Poco prima, quella stessa mattina, avevo accarezzato a lungo il tuo piccolo muso reclinato in basso, gli occhi socchiusi, i peli diventati tutti grigi, le zampine che non reggevano più il tuo corpo, da alcuni giorni non avevi più voglia di mangiare e di bere, non potevi più camminare. Ti sei addormentato così, piano piano. Per sempre.
Eppure, dopo averti lasciato lassù, non mi sono sorpreso quando, scendendo dal sentiero di montagna, ho incrociato nella notte un capriolo. Non era solo, accanto a lui c’era un piccolo cane di colore bianco e nero, le orecchie abbassate sul muso, il baricentro del corpo spostato in basso, proprio rasoterra, che non smetteva di inseguirlo e di girarci intorno. Felice e allegro. Eri proprio tu, piccolo Miki. Per sempre libero di girare senza collarino, di saltellare nella neve, di mordicchiare le code delle cagnette. E di abbaiare alla luna.

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