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Elezioni USA: i perchè dell'incertezza

Il tramonto dello spirito unitario e la crisi dell’idea di libertà generatrice

(Altre riflessioni nel testo Uscire dalla paura, su Critica liberale-Non Mollare 3.11.24)

di Angelo Perrone

Divisi come mai nella loro storia, gli americani scelgono il loro presidente. Il risultato, anche stavolta e già nel 2020, è incerto. Circostanza drammatica, data la posta in palio; incredibile, se si osservano lo spessore dei candidati e l’entità dei problemi. 
È la prima volta che concorre un pregiudicato, Donald Trump, condannato prima delle elezioni per 34 reati di falsificazione di documenti aziendali. È colui che dopo la sconfitta 2020 ha tollerato e fomentato l’assalto del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill, il tempio della democrazia americana. 
Lo stesso fomentatore ora lancia minacce terribili. Ci sarà «un bagno di sangue» in caso di sconfitta. C’è poi il messaggio politico, «deportazione di massa degli immigrati». Per liberarci di loro finalmente, e ricominciare un’altra storia. 
È la prima volta che il candidato democratico viene scelto in maniera così funambolica ed improvvisata. La candidatura di Kamala Harris ha dato l’impressione d’essere l’esito inverosimile di un atto straordinario di magia, un’improvvisazione, dopo che il caro vecchio Joe Biden, vittima degli anni, degli acciacchi, della perdita di memoria, era stato costretto al ritiro.
Eppure Kamala ha mostrato verve, iniziativa, sicurezza comunicativa, nessuno prima l’aveva potuto cogliere ed apprezzare. Con il suo smagliante e sorprendente sorriso, ha rianimato gli sconsolati democratici, non tutto è perduto, la partita si riapre. 
Le previsioni dunque sono incerte in questo contesto, a dispetto dell’oggettiva valutazione dei concorrenti, ma anche in virtù di un paradosso. 
Gli Stati uniti hanno saputo affrontare prove severe, il Covid e la recessione economica dalle mille sfaccettature, l’invasione russa dell’Ucraina e la minaccia del capovolgimento degli equilibri mondiali per la pressione di paesi dichiaratamente antioccidentali, Russia, Cina, India, Corea del nord, Iran. Il paese, che ha affrontato tutto ciò, è ora in espansione economica e ha un indice di disoccupazione che rasenta lo zero, da fare invidia a tanti. E manca anche un milione di operai. 
E tuttavia proprio quel paese è attraversato da una sensazione dirompente di incertezza e paura su cui il candidato repubblicano soffia a pieni polmoni. Il dato sorprendente è che, a nutrire le paure più forti e dirompenti, non sia l’America profonda dell’«Elegia americana», decantata dal vice Vance. È invece l’America dei ceti più modesti, a cominciare dai latino-ispanici, preoccupati del possibile arrivo di nuovi immigrati.
Perché allora è incerto l’esito elettorale nonostante ciò? C’è una fase evidente di debolezza della democrazia nel paese. Sono saltati i meccanismi che fin qui hanno selezionato una classe dirigente dignitosa, o talora buona ed eccellente, in entrambi i partiti, ma soprattutto perché è compromessa la visione realistica dei problemi e menomata la capacità di affrontarli.
La bandiera a stelle e strisce non sembra più il simbolo comune di tutti, meglio non rappresenta le stesse cose per ciascuno. Ognuno la interpreta a modo suo, e spesso avviene l’uno contro l’altro. È come se negli ultimi vent’anni tutto fosse cambiato, e fosse venuta meno quella unità di intenti.
Sono le lacerazioni nella società, la mancanza di una visione comune (e solidale) a rendere possibile che un personaggio come Trump possa concorrere e avere persino chance di vittoria; a permettere che il dibattito politico sia banalizzato e corrotto a tal punto da mettere in pericolo le sorti della democrazia in quel paese. 
Colpisce la spregiudicatezza con la quale viene brandita dai trumpiani – come soluzione a tutto – l’idea del popolo contro la politica (e le istituzioni). Può di scoprire che le vicende altrui trovano corrispondenze ed echi illuminanti nel proprio mondo. Seguire le cose altrui permette di riflettere sulle cose di casa nostra, su quanto ci angoscia e preoccupa magari.
Ci allarmano certi discorsi comuni, come l’esaltazione della figura del leader, la messa al bando degli avversari etichettati come nemici o traditori, la rivendicazione di soluzioni nella sostanza autoritarie, perché determinano forzature, e si rivelano scorciatoie inefficaci, anzi pericolose: è la strutturazione di una politica “eversiva”, che provoca in primo luogo la disarticolazione del tessuto sociale. 
Il magma che si crea ha una sorta di filo conduttore ben visibile. L’America e talvolta l’Europa vivono in fondo il declino inarrestabile di una certa idea di libertà, che in una democrazia liberale dovrebbe essere risorsa capace di orientare il pubblico e pure il privato.
Lo sfondo di tanta politica di destra radicale, incarnata da personaggi alla Donald Trump, è l’identificazione della libertà individuale con l’assenza indiscriminata di regole, inutili e condizionanti, mentre sono indispensabili alla convivenza.
Ognuno deve essere liberato da lacci e lacciuoli, vincoli di solidarietà, per poter fare quello che gli pare, e così dovrebbe andare bene a tutti, dovremmo tutti stare bene, ma non è così. 
Invece la spinta etica e politica necessaria non può essere l’insofferenza per i limiti, quasi fossero ostacoli all’iniziativa individuale, impedimenti nocivi alla propria realizzazione. La strada della negazione della responsabilità e del bisogno altrui è esattamente quella che poi rende precario e insicuro il proprio obiettivo di vita e professionale.
Dunque le elezioni americane, a modo loro, sono persino un atto di coscienza per la collettività, suscitano una riflessione oltre l’immediato, sul futuro individuale e del paese tutto. Messa così, la cosa ci riguarda molto da vicino, visto quanto accade da noi.

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