(Angelo Perrone) La recente sentenza della Corte di Giustizia UE sul protocollo Italia-Albania, che impone ai giudici di valutare l'effettiva sicurezza dei "Paesi di origine", ha scatenato una reazione inappropriata del governo italiano.
Palazzo Chigi ha subito attaccato, sostenendo che la giurisdizione "rivendica spazi che non le competono" e che la decisione "indebolisce le politiche contro l'immigrazione illegale".
Questa reazione rivela un difetto di cultura istituzionale e una pericolosa mancanza di rispetto per l'autonomia giudiziaria, specie quella europea, e per il principio della separazione dei poteri.
Ministri come Tajani, Piantedosi e Salvini hanno rincarato la dose, definendo la sentenza "scandalosa" e "imbarazzante", lamentando un presunto "potere politico" dei giudici e la menomazione del controllo dei confini. Salvini ha persino dichiarato che "non ci arrendiamo a chi vuole spalancare le porte ai clandestini".
Queste affermazioni dimostrano un senso del limite smarrito non solo tra esecutivo e magistratura, ma tra obiettivi politici e principi di diritto. La Corte ha semplicemente ribadito il principio che le decisioni politiche devono rispettare il diritto e i diritti fondamentali.
L'Associazione nazionale magistrati e il giudice Silvia Albano (autrice dei primi provvedimenti) hanno chiarito che i giudici italiani applicavano correttamente la legge e che la Corte UE ha solo confermato tale interpretazione. La reazione del governo, che sfiora l'insulto, rischia di minare la fiducia nelle istituzioni e la posizione dell'Italia in Europa.
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