(Introduzione a Daniela Barone). Un viaggio intimo nella memoria degli “anni di piombo”, dove la Storia non è solo cronaca, ma destino individuale. L'autrice ci guida attraverso i momenti chiave del terrorismo italiano, dal dolore per l'omicidio Moro alla sorprendente coincidenza che lega la sua vita privata a una figura centrale della lotta al terrorismo. Un pezzo che dimostra come i grandi eventi nazionali lascino tracce indelebili e inattese nella vita di ognuno.
(Daniela Barone - MEMORIA) ▪️ Gli “anni di piombo” sono un ricordo indelebile nella mia mente. Le Brigate Rosse avevano sconvolto il nostro Paese, non solo la mia Genova di giovane donna. Nel libro “Che cosa sono le BR” di Giovanni Fasanella e Alberto Franceschini che lessi nel 2004, mi colpì una frase di quest’ultimo: «Partimmo alla conquista di un nuovo mondo ma non ci rendevamo conto che, in realtà, aiutavamo a puntellare quello vecchio.» L’uomo, uno dei fondatori dell’organizzazione terroristica, rivela nel libro la sua rabbia e soprattutto la tentazione di rimuovere i tanti fatti sanguinosi. Dopo molti anni riconosce però i suoi errori e confessa di avvertire il peso di una grande responsabilità.
✓ La rabbia e il peso della responsabilità
Per me le emozioni più vivide di quel periodo storico sono legate ad un martedì di maggio del 1978, quando intorno alle 13 ero tornata dall’università. Mia madre, intenta a pulire delle acciughe, mi salutò appena. Qualcosa doveva turbarla: eseguiva l’operazione con una sorta di rabbia, lei che aveva sempre un atteggiamento rispettoso nei confronti del cibo. La guardai attentamente e mi parve di vederla asciugarsi frettolosamente una lacrima, appena prima di pulirsi le mani nel grembiule.
«L’hanno ucciso come un cane.» aveva detto. Così venni a sapere dell’uccisione di Moro da parte delle Brigate Rosse.
La lunga prigionia del politico democristiano non poteva avere un epilogo più tragico: lo Stato, o forse solo un numero ristretto di politici, aveva optato per la tanto sbandierata ‘linea della fermezza’ e a nulla erano valsi gli appelli del Papa e di molti liberi pensatori. Degli scritti di Moro mi erano rimasti impressi i saluti dell’uomo, non del politico, al nipotino Luca di soli due anni. Che disperazione doveva aver provato nonno Aldo, consapevole di non poter vederlo crescere.
✓ Un martedì di maggio: la linea della fermezza
Genova, mia città natale, sembrava essere proprio nel mirino dei Brigatisti, tanti erano stati gli episodi di sequestri, “gambizzazioni”, come si diceva allora, e di spietate uccisioni di magistrati, politici, sindacalisti e uomini delle forze dell’ordine. Ricordo nel 1976 l’esecuzione del procuratore Coco, trucidato nella scalinata di Santa Brigida, proprio di fronte alla mia facoltà di Lettere.
Altre vittime chiave degli Anni di piombo, come vennero chiamati, furono il commissario di polizia Antonio Esposito nel 1978 e l’anno successivo il sindacalista Guido Rossa nel mio quartiere natale di Oregina. In quello stesso anno vennero uccisi il maresciallo Battaglini e il carabiniere Tosa a Sampierdarena, dove io e mio marito eravamo andati a vivere.
La paura non mi abbandonava, dato che ogni giorno apprendevo dai giornali di sparatorie, sequestri e omicidi che talvolta avevano coinvolto persone estranee alla politica. Per quanto il capoluogo ligure si fosse rivelato una specie di roccaforte inespugnabile, decine di arresti nei mesi successivi colpirono fortemente la colonna genovese che iniziò a disgregarsi.
✓ Genova nel mirino: la paura quotidiana
Decisivo per la fine delle Brigate Rosse fu l’arresto a Milano, dopo nove anni di clandestinità, di Mario Moretti, colpevole dell’assassinio di Aldo Moro e di Enrico Fenzi, un mio professore di Let-tere all’Università di Genova. Era il 4 aprile 1981. Autore del colpaccio fu Ettore Filippi, capo della squadra mobile di Pavia, grazie a un ex detenuto diventato informatore della polizia.
✓ L'arresto di Mario Moretti: il legame con Pavia
La storia degli “anni di piombo” si intrecciò più volte con la mia vita. Da Genova mi ero trasferita nel 1986 a Pavia, dove mio marito aveva ottenuto un lavoro ben remunerato in un’azienda di autoclavi. In questa città nebbiosa in inverno e infestata dalle zanzare in estate, vissi malvolentieri per oltre un trentennio. Per qualche tempo continuai ad acquistare il quotidiano della mia città natale, Il Secolo XIX, e a seguire con interesse la politica e la cronaca genovese.
Ormai “La notte della Repubblica”, come l’aveva definita Sergio Zavoli, si era diradata lasciando il posto a giorni peraltro ancora difficili e confusi. Gli anni successivi furono allietati dalla nascita dei miei tre bambini e dall’entrata in ruolo in un Istituto professionale, oltre che dall’arrivo del mio nipotino che curiosamente porta il nome del nipote di Aldo Moro.
Nel 2019 ospitai nella mia casa di Pavia mio padre gravemente ammalato. Era rimasto solo dopo la scomparsa della mamma e si era chiuso in un mondo tutto suo. Preoccupata per il suo declino, mi rivolsi ovunque per farlo ricoverare in una RSA. Fortunatamente ricevetti l’aiuto di una collega che sapevo essere la moglie del Filippi, personaggio storico del passato e politico discusso del presente pavese.
Incontrai l’ex poliziotto, ormai anziano e ammalato, in una giornata piovosa di ottobre. Salì sulla mia auto e mi diede bruscamente le indicazioni per raggiungere la casa di riposo. All’entrata uno stuolo di infermiere accorse a stringergli la mano. Sotto l’aspetto malandato si intravedeva la maniera spiccia dell’uomo abituato a comandare e a trattare con gente di ogni risma.
Mesi dopo, lui stesso, abituato a tendere tranelli ai delinquenti, cadde nella trappola implacabile della Morte. Alle sue esequie Filippi venne abbigliato con la divisa di poliziotto e si suonò l’inno della Polizia di Stato nel rispetto delle sue ultime volontà.
✓ L'intreccio del destino: dall'eroe al curatore
Grazie a quest’uomo inviso a molti, papà aveva passato i suoi ultimi giorni in un hospice con personale medico competente ed empatico. Chissà, forse in cielo Filippi si dilettava a giocare a guardie e ladri, come facevo io da bambina. A me piaceva il ruolo del ladro ma sicuramente lui preferiva impersonare la guardia efficiente e inflessibile che era stato in terra.
Foto 1. La notizia su Repubblica del rapimento di Aldo Moro il 9 maggio 1978
Foto 2. Quadro di Renato Guttuso raffigurante una scena di lotta e contrasto
Foto 3. Foto della macchina Fiat 132 di Moro sulla quale fu prelevato Moro.
Foto 4. Foto del ritrovamento del corpo di Aldo Moro su una Renault in via Caetani a Roma




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