venerdì 9 novembre 2018

La prescrizione, tabù da riconsiderare

La riforma della prescrizione è un tema da sottrarre alle polemiche politiche. La “ragionevole durata” del processo dovrebbe essere legata ai tempi della decisione del giudice nel singolo caso 

La giustizia, mezzo di scambio nella lotta politica
(ap *) La proposta di sospendere la prescrizione nei processi penali a partire dalla sentenza di primo grado merita di essere sottratta alle polemiche politiche di questi giorni. Certo, non è facile farlo, è complicato parlarne serenamente per diversi motivi: il modo in cui è stata avanzata, la rivalità tra leghisti e grillini, l’insieme dei pregiudizi che accompagnano spesso questo tema, i timori di molti in materia di garanzie processuali.
Il movimento 5Stelle l’ha proposta quasi di soppiatto in un decreto avente altro oggetto (il contrasto alla corruzione), secondo un metodo non nuovo in questi pochi mesi di vita del governo gialloverde. Un modo di svalutare il tema e di usarlo strumentalmente nei rapporti di potere con l’alleato leghista. Le dinamiche tra i due partner si giocano su un terreno che nella forma vorrebbe essere di collaborazione, ma nella sostanza sono spesso di contrasto, sottintesi, colpi di mano veri o presunti (le manine che ritoccano i testi predisposti).
Gli accordi sono spesso approssimativi perché scontano visioni e interessi contrapposti. Approcci politici differenti nonostante la concordia apparente, oltre alla rivalità elettorale, portano a trasformare questioni delicate come appunto quella della prescrizione in un’occasione di contesa politica.
In cambio del decreto sicurezza, voluto fortemente dalla Lega ma indigesto a molti dei 5Stelle, ci vuole una iniziativa più in sintonia con le sensibilità dei grillini. Le politiche di condono fiscale sostenute da Salvini vanno compensate con altre ispirate alle parole d’ordine “onestà, onestà”. A rimarcare la propria identità, nulla di meglio, per i 5Stelle, dei temi della giustizia, in particolare quello dell’impunità quando i processi si concludono con la prescrizione.
Tuttavia la riforma della prescrizione non può essere un “emendamento”, né merce di scambio politico, pena la svalutazione di un dibattito serio, la sua derisione, la strumentalizzazione della giustizia ad altri fini. Proprio la constatazione che l’argomento-prescrizione sia invischiato in un dibattito che non le appartiene spiega quanto sia difficile mettere un “punto e a capo”, e ricominciare a discuterne in un modo libero da pregiudizi. Magari sfidando luoghi comuni e valutazioni sommarie.
A parlare della riforma della prescrizione, si corre il rischio di esaltare la logica dei processi infiniti? Si manifesta il gusto di perseguire gli innocenti sino alla sfinimento? In una parola, significa condividere quell’ottica deformante che, con significati strumentali, viene racchiusa nel termine di “giustizialismo”?

Come garantire la durata ragionevole dei processi
La durata dei processi, che la stessa Costituzione indica come valore primario, è questione troppo importante e complessa per essere ridotta a questo. Così come è certamente vero che le lungaggini processuali abbiano svariate cause e che solo un approccio organico può consentire di rimuoverle nel lungo periodo. E tuttavia non è necessaria la temerarietà per sostenere che, essendo ugualmente indispensabili tante altre iniziative, questa considerazione non basti per impedire da subito una riforma sostanziale della prescrizione.
Certo che è indispensabile molto altro: interventi sul sistema delle impugnazioni, sui gradi di giudizio, sulle regole processuali relative alla gestione dei processi, sul sistema sanzionatorio, sul numero delle fattispecie penali, ma tutto ciò non solo non esclude ma anzi esige che si parli anche del tema tabù, la prescrizione.
Il dibattito sulla prescrizione è sempre stato legato alla variabilità delle esigenze politiche contingenti, e a una diffidenza di fondo – va detto – nei confronti del sistema giustizia. Si accorciano i termini di prescrizione (magari per avvantaggiare qualcuno: epoca Berlusconi) oppure si allungano (quando si vogliono contrastare forme odiose di criminalità: dal terrorismo alla mafia, alle violenze sessuali).
Fiducia e sfiducia si alternano, senza considerare che in discussione non è solo il lavoro dei magistrati, ma quello di tutti gli operatori, e in fondo della stessa qualità delle norme da applicare. Però la prescrizione non può essere un elastico variamente estensibile secondo ragioni momentanee o estranee alla giustizia.
Fuori da queste logiche, un approccio di sistema dovrebbe partire da una domanda di base: a cosa si può collegare, in un stato di diritto, il traguardo della ragionevole durata del processo? Ora, soprattutto in un paese che ha adottato il processo accusatorio (le prove decisive raccolte davanti ad un giudice terzo ed imparziale, nel contraddittorio tra le parti, secondo il metodo dell’oralità e concentrazione), il diritto del cittadino ad essere giudicato in tempi rapidi deve essere ancorato al fatto che sia pronunciato il “giudizio” che lo riguardi. Che vi sia una pronuncia di un giudice su un determinato reato e sulla responsabilità di qualcuno.
A questo obiettivo, è collegata anche la pretesa della collettività ad avere in tempi certi e rapidi giustizia sui fatti che hanno messo in pericolo la convivenza civile e che la rendono gravemente insicura.  Non è un caso che in America, la sentenza emessa dai giudici sia di norma definitiva: quando è pronunciata è lì pronto lo sceriffo a portare in galera il condannato o a liberare il cittadino assolto. Le impugnazioni sono rare ed eccezionali.

La fiducia nella decisione “giusta” del giudice
Il discorso sulla prescrizione ruota intorno a questa considerazione: il diritto del cittadino ad avere giustizia dallo Stato ha per oggetto che vi sia una decisione sul caso che lo riguarda, non anche che vi siano tutte le altre decisioni che potrebbe pretendere – con le impugnazioni – qualora la prima non sia per lui soddisfacente. Per il semplice motivo che, quanto alla tempistica, si ha diritto ad una decisione, non a tutte quelle che, per ragioni di garanzia, il sistema rende azionabili quando la prima non sia “accettabile” (dalla parte). E ciò proprio perché il presupposto dell’impugnazione è la non condivisione di una decisione, non il fatto che non sia (oggettivamente) corretta.
Mille volte si è messo in evidenza come la prescrizione infinita, senza un termine, sia fonte di distorsioni: anche quando si ha torto conviene sempre impugnare le sentenze nella speranza che il tempo porti qualche beneficio, che sopravvenga un provvidenziale mutamento, che gli ingranaggi della giustizia si inceppino, che alla fine intervenga la prescrizione. Tuttavia non sono soltanto gli inconvenienti di una prescrizione senza fine a consigliarne la riforma se avesse senso mantenerla come è oggi.
Sempre per ragioni di sistema, una volta strutturato il processo con il massimo grado di garantismo, compiuto lo sforzo di rendere la formazione dei magistrati la più qualificata possibile e raggiunto l’obiettivo analogo per tutte le altre categorie interessate (gli avvocati, il personale amministrativo), dovremmo essere audaci, sino a dire: si presume che la decisione del giudice (di primo grado) sia giusta, la più corretta possibile nell’applicazione del diritto al caso concreto.
Per questo, le impugnazioni dovrebbero essere organizzate in modo da escluderne l’uso strumentale: per esempio esponendole sempre al rischio di una riforma in peggio, o del pagamento di una penalità in caso di azioni temerarie. E soprattutto liberandole dalla peggiore delle deformazioni, che per tutti (colpevoli ed innocenti, cittadini e Stato) è in contrasto con il senso di giustizia, quella di affidare la parola conclusiva, nell’accertamento dei reati e delle responsabilità individuali, al tocco magico del tempo: il colpo di spugna che annulla le colpe, e sottrae giustizia a tutti.

* Leggi anche La Voce di New York:

La prescrizione nei reati, fuor di polemica: il tabù da riconsiderare

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