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Referendum, giustizia come miraggio

Il referendum del 12 giugno dimostra l’incapacità di affrontare i mali della giustizia, principalmente la lentezza


(Angelo Perrone) Il referendum sulla giustizia del prossimo 12 giugno è l’ennesima tappa di quella mitica “riforma della giustizia”, invocata a più riprese dai politici, e tuttavia mai realizzata, per questo ora affidata – per spezzoni - alla “saggezza” popolare, affinché faccia ciò che altri non hanno saputo. Gli elettori dovrebbero rimediare ad incapacità ed errori, ammesso (è difficile) che si raggiunga il quorum necessario per la validità del voto, cioè la maggioranza degli aventi diritto. E sempre che si possa fare chiarezza in tempo.
Secondo i sondaggi, solo il 56% delle persone è a conoscenza della consultazione, e la maggioranza non sa nulla delle problematiche connesse, che oggettivamente sono piuttosto complicate, richiedono tempo e informazioni per orientarsi. I cinque quesiti riguardano infatti incandidabilità al parlamento dopo la condanna; custodia cautelare; separazione delle funzioni; valutazione avvocati sui magistrati e elezione del CSM.
Temi diversissimi, non omogenei, e soprattutto settoriali, che prescindono da una visione d’insieme e minacciano di fare del referendum un uso fuorviante e dirompente. Non c’è settore, come la giustizia, in cui abbia così tanto spazio l’enfasi retorica, a discapito della concretezza. Eppure servirebbe altro: competenza, in primo luogo.
L’incidenza dell’argomento nella quotidianità, quanto a sicurezza personale e libertà individuale, può spiegare il sovraccarico di emotività, però sono ingiustificabili gli errori nella prospettazione dei rimedi. L’aspetto più allarmante è rappresentato dalla frattura tra la materia referendaria e la realtà di un campo, attraversato da mali cronici, il primo luogo la negazione della giustizia che si perpetua ogni volta che i processi non giungono al termine.
La mancanza di una decisione di merito è una sconfitta dello Stato, un esito intollerabile per i cittadini. Con ricadute su tutto: dignità delle persone coinvolte, le quali (innocenti o colpevoli) hanno diritto di sapere come i comportamenti sono valutati; poi la certezza delle regole perché la comunità fa affidamento sulla stabilità dell’ordinamento. Quando potrò riscuotere il mio credito? Se ho commesso un reato, quali sono le conseguenze?
Certo alcuni episodi gravissimi di malcostume (a partire dal caso Palamara) hanno mostrato il lato oscuro dell’autogoverno giudiziario. Ma la crisi di credibilità che investe la magistratura si associa ai mali profondi del sistema penale e processuale. Il settore è oberato da un eccesso di normazione, che scarica sulla repressione l’incapacità politica di incrementare la prevenzione, e da un formalismo che paralizza il sistema contrastando l’esigenza di celerità.
Come pensare che i quesiti possano risolvere un simile garbuglio? È un inganno intellettuale la tendenza ad additare come soluzioni degli interventi che nulla hanno da spartire con i mali endemici della giustizia.

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