di Marina Zinzani
“Coloro che sono liberi da pensieri risentiti troveranno la pace.” (Buddha)
Avere ricevuto un’offesa: un sasso buttato in uno stagno che crea un cerchio, il cerchio si allarga, si trasforma in altri cerchi, uno, due, tre, ancora, lo stagno perde il ricordo della quiete, lo stagno diventa altro. Quel sasso, piccolo o grande che fosse, ha creato il suo malefico effetto, rendendo l’acqua torbida, melmosa, putrida.
E in quest’acqua c’è un’anima sofferente che non è stata ascoltata, compresa, che ha subito un torto. Ha subito un torto. Una sofferenza motivata, la sua: si è esseri umani, con una propria sensibilità. E così si scopre che si può essere prigionieri di tante cose, anche del risentimento. Quello stato d’animo di frustrazione che può dominare azioni, pensieri, e generare rabbia.
Può far nascere anche un senso di rivalsa a volte, questo sì, e portare cose buone. Però, in generale, il risentimento è la condanna a convivere con un pensiero, con il ricordo di qualcosa di negativo, e alla fine si cede ad un’entità vaga (un avvenimento, qualcuno che magari appartiene al passato) le chiavi delle nostre giornate.
È lodevole, ammirevole, invidiabile chi si scrolla di dosso certe tossine, come polvere su una giacca. Sente che ha la vita davanti, che ci sono mille padroni che la dominano e che possono cambiarla da un momento all’altro, il fato per primo, e non è il caso di abdicare la propria possibilità di scelta. Si possono scegliere i pensieri. E dire “chi se ne frega” una volta tanto.
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