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2 giugno: la Repubblica incompleta

Dopo la scelta repubblicana e la Costituzione democratica, il Paese deve affrontare le sfide del tempo: precarietà, angosce, crisi di fiducia


(Angelo Perrone) Il 2 giugno 1946 è la data che mette insieme la fatica di fare i conti con il passato e il coraggio di avventurarsi verso il nuovo: un mondo ancora da definire, esposto a cambiamenti imprevedibili, che richiede consapevolezza. Le due esigenze definiscono il compito svolto da quella generazione, e l’impegno assegnato a quelle future.
La data è fortemente identitaria per gli italiani, ne indica la presa di coscienza rispetto al passato, segnato da sangue e sventure, e la volontà di impostare l’avvenire, con un obiettivo primario: trasformare la curva faticosa dell’esistenza in un cammino di speranza.
Quel giorno è segnato da una doppia ricorrenza. La vittoria della repubblica sulla monarchia, e l’elezione dell’assemblea costituente, per fissare nuove regole, ispirate ai valori della Resistenza e della rinascita come paese unito e solidale. Un passaggio storico, a suffragio universale, e, per la prima volta, con il contributo delle donne. Il cui voto fu, verosimilmente, decisivo per la scelta della repubblica.
Il nostro sguardo è rivolto a vicende ormai scolpite nel tempo, ma è sollecitato da quanto è accaduto in seguito proprio in conseguenza di quelle scelte: i problemi risolti, quelli lasciati insoluti, gli altri che all’epoca non erano nemmeno immaginabili, e che solo le trasformazioni successive hanno fatto emergere. In tutta la loro drammaticità. L’attualità della data è in questa complessità.
La scelta repubblicana non fu solo “punitiva” nei confronti dell’istituzione monarchica, che dopo i meriti risorgimentali, si rese complice della dittatura fascista. Fu anche questo, e a ragione. Era necessario un taglio netto, senza appello, con una storia ormai screditata. Ma forse la vile debolezza davanti al fascismo fu solo l’ultimo atto di un processo più ampio.
L’idea repubblicana affonda le sue radici in un pensiero lontano, è infatti una forma nuova di illuminismo, punto di approdo di un cambiamento epocale. Custodisce opportunità generose, perché consiste in un atteggiamento culturale (prima che politico), lo stesso che ha permesso di separare la sfera della Chiesa da quella dello Stato, esplorare il conoscibile senza paure e pregiudizi, risalire spregiudicatamente dal particolare all’universale, cogliere e mettere a frutto i tanti “lumi” sparsi nell’umanità.
La forma repubblicana è intrinsecamente connessa al sistema delle libertà individuali, è il suo ancoraggio più solido, perché ribalta il vecchio schematismo di potere diffuso negli Stati assoluti. 
La modernità non tollera l’asimmetria del rapporto sovrano – sudditi, sia pure temperata e limitata da costituzioni liberali. Troppo esorbitanti i poteri del monarca. Ingiusto e innaturale il principio di gerarchia. Esige invece la simmetria (democratica) delle relazioni tra cittadini, uomini e donne sullo stesso piano, secondo regole di eguaglianza formale e sostanziale. 
Il voto per l’assemblea costituente non è stato appendice meccanica della scelta repubblicana, anzi ne ha costituito il nerbo vitale. La retorica sulla “Costituzione più bella del mondo”, concetto immaginifico denso di significati, ha oscurato il lavoro svolto in un anno e mezzo dai Costituenti, sino all’entrata in vigore del testo il 1° gennaio 1948. Ne ha anche banalizzato il risultato, rendendolo ovvio e scontato.
Si svolse, in quell’Assemblea costituente, un lavoro di alto livello, su questioni complesse e di sorprendente attualità (rigidità della Costituzione, opportunità di un preambolo di valori, mono o pluricameralismo, forma di governo, autonomie delle istituzioni, e tanto altro), che giunse ad una incredibile sintesi di valore. Alla quale, volendo trovare un pregio ulteriore, fu estranea la saccenteria sacrale dell’immutabilità.
Ci si sorprende di quanto la Carta fondamentale sia un testo piano, semplice, comprensibile a tutti, denso di echi, risonanze, sollecitazioni, oltre le interpretazioni giuridiche. I Costituenti portarono a termine con successo la loro missione e questo lascia sgomenti noi, modesti osservatori dell’attualità. Quanto distanti, per qualità ed efficacia, le modifiche successive; e maldestri i tentativi di introdurre novità.
La Repubblica deve affrontare le scommesse del tempo, non può arroccarsi nelle conquiste, deve mettersi in gioco: in un paese così composito e diseguale, l’essere liberi è tutt’uno con il restare liberi, va mantenuto alto l’impegno ad affrontare le nuove sfide. Come le crisi economiche dovute ai cambiamenti mondiali, le conseguenze negative della globalizzazione e infine gli effetti della pandemia.
Il dibattito su quanto la Costituzione debba essere cambiata e quanto invece abbia bisogno d’essere (solo, ma non è poco) attuata, speriamo sia messo da parte una volta per tutte. Non perché non serva parlarne o perché non ci sia dell’utile nella discussione. È un modo alla fine per non affrontare la realtà, accampando alibi e pretesti.
La ricostruzione (economica e politica) mirava ad un obiettivo ambizioso e semplice: restituire a ciascuno il proprio posto nella storia, fosse quella individuale o collettiva. Lo smarrimento attuale è la conseguenza di una perdita di chiarezza sull’obiettivo da perseguire e sugli strumenti da usare.
Come ritrovare la bussola? È servito un impegno di secoli per unire un paese frammentato nelle idee, nelle condizioni di vita, nei rapporti di lavoro.
Ma sono stati l’istruzione pubblica, la sanità per tutti, le conquiste civili, le rivendicazioni lavorative, l’innovazione economica, la dignità politica a promuovere un cambio di passo. Lo Stato, se non dimentica il bisogno di libertà da cui è nato, deve impegnarsi per favorire il destino di ogni suo cittadino.
La pandemia o le crisi economiche hanno provocato una tragica perdita di risorse. Non è l’unica, nemmeno forse la più preoccupante. Il danno maggiore lo percepiamo ogni giorno. Siamo angosciati dalla mancanza di prospettive per il futuro. Sembra inguaribile la crisi di fiducia sulla possibilità di uscire dal tunnel. Il punto è che, per reagire alle disavventure, non basta un atto di volontà.
Serve, come avverte l’art. 3 della Costituzione, la “rimozione degli ostacoli”, che si frappongono all’esercizio dei nostri diritti e impediscono la crescita sociale. Soprattutto occorre un patto di fiducia tra cittadini e istituzioni, per tornare a riconoscersi in ciò che ci rappresenta come collettività.
La crisi più tremenda riguarda i meccanismi di rappresentanza ad ogni livello. Come dire: la capacità di affidamento dei singoli, la credibilità delle istituzioni. Si potrebbe lavorare in molte direzioni: la trasparenza dell’azione pubblica, la correttezza dell’amministrazione, la semplificazione delle normative, le regole elettorali per assicurare corrispondenza tra volontà popolare e direzione politica, la rivitalizzazione delle formazioni intermedie. Un elenco noto, e sempre più lungo per il susseguirsi delle inadempienze.
Sapere che il “servizio alla collettività” è il nervo scoperto della nostra democrazia è parte decisiva della soluzione dei problemi. Immersi nel frastuono che ci affligge, non riusciamo a sentire le voci che possono illuminarci, interrogando le coscienze certo, ma dandoci infine sollievo. La gente di qui non può rimanere divorata dalle difficoltà, ha bisogno di riprendere in mano il proprio destino.

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