venerdì 15 maggio 2020

Carceri, la salute di Caino sotto il Covid-19

Il coronavirus in carcere. Decessi, rivolte, sovraffollamento, scarcerazioni di boss, bufera ai vertici penitenziari. Serve un nuovo modello di carcere: sicurezza, dignità, reinserimento sociale


 (Angelo Perrone) Rivolte e proteste durante i mesi caldi del Covid-19, scarcerazioni eccellenti di mafiosi e narcotrafficanti. Poi l’inevitabile scossone al vertice dell’amministrazione penitenziaria, il ministro Bonafede nomina in gran fretta il nuovo capo del Dap, il magistrato Petralia, insieme al vice Tartaglia, per fronteggiare la situazione.
Sono i passaggi più drammatici di questa fase di emergenza negli istituti di pena. Nella quale sono apparse evidenti la sottovalutazione dei problemi e l’impreparazione a fronteggiarli. Il coronavirus non poteva risparmiare proprio le carceri, istituzioni chiuse per eccellenza, sovraffollate all’impossibile, più esposte al virus. Così ne ha fatto saltare i fragili equilibri interni, mettendo allo scoperto i problemi irrisolti.
Era cominciato tutto con l’ammutinamento di alcuni detenuti, da febbraio in poi, nel pieno dell’epidemia, una protesta per le condizioni degli istituti, gravate da un sovraffollamento estremo che rende impossibili le precauzioni necessarie. Sommosse, reparti incendiati, servizi fuori uso, manifestazioni sui tetti. Nessun allarmismo, il virus ha iniziato a far vittime tra detenuti e personale. E oltre ai reclusi tanti altri sono esposti, i 40.000 che lavorano nelle carceri, tra penitenziaria, medici, volontari. Una risposta debole del ministro della Giustizia Bonafede e della sua amministrazione, esortazioni a interrompere le proteste, poi si vedrà cosa fare, con calma. Non saranno mancati scongiuri perché le cose non peggiorassero. Invece, è accaduto proprio questo.
Arriva l’inevitabile scarcerazione di tanti detenuti. Un numero enorme, 376, che crea allarme. Hanno situazioni sanitarie gravi, non trattabili in carcere, soggette a peggiorare per la pandemia. Scoppia la polemica perché non sono detenuti qualsiasi. Anzi, tra i più pericolosi e irriducibili. Sorveglianza speciali, casi da 41 bis dell’ordinamento penitenziario, ancora in contatto con le organizzazioni criminali. Narcotrafficanti, omicidi, mafiosi. Spiccano i nomi dei boss, dal camorrista Zagaria, allo ‘ndranghetista Iannazzo, ai siciliani Bonura e Di Piazza. Tutti ora a casa, in famiglia, in detenzione domiciliare, con la possibilità, come temono i p.m. antimafia, che riprendano, se mai li avevano interrotti, i contatti con le rispettive gang.
Anche qui, la risposta è disarmante. Andranno approfonditi i singoli casi per vedere il perché delle decisioni, chissà che i giudici, sempre loro, non abbiamo commesso errori marchiani. Poi le ispezioni, gettiamo un’occhiata di persona, ci saranno magari colpevoli da additare al pubblico ludibrio. Si cerca altrove ciò che è sotto gli occhi. Non manca la bacchetta magica, la previsione che i giudici chiedano sempre il parere dei p.m. antimafia, quelli oggi più preoccupati, prima di qualsiasi decisione. Così non si potrà dire che le situazioni pericolose non siano state segnalate a dovere. Un agitarsi confuso ed inefficace, come se tutto non fosse già chiaro, eclatante, soprattutto noto, da tempo.
Quali cose? Per cominciare, l’affollamento. Perenne questione, mai risolta, presentata ogni volta come emergenza, mentre non lo è. Si tratta di una disfunzione endemica, denunciata più volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. La disponibilità di posti rispetto alle esigenze? Sempre insufficiente. Oggi sono 53.000 i reclusi a fronte di una capienza di 47.000 posti, ma erano 61.000 prima che tutto questo accadesse.
A seguire, c’è la refrattarietà alla costruzione di nuove carceri, come avviene in ogni paese, secondo una normale proporzione tra popolazione, flussi criminali, e casi di detenzione Non si pensa che, tra le infrastrutture necessarie al paese, ci siano anche queste. Si invoca sicurezza sociale, non si lavora per realizzarne gli strumenti. Ce ne vogliono in tutte le direzioni certo, ma servono anche in questo campo.
Per continuare, l’eccesso di criminalizzazione della vita sociale (si è visto anche all’inizio del coronavirus) a dispetto di sistemi sanzionatori più veloci ed efficaci. E la mancanza di misure alternative al carcere, basate però su controlli sicuri. Si indugia nei proclami, nelle vanterie, come quella recente sulla disponibilità di migliaia di braccialetti elettronici per sorvegliare gli arrestati domiciliari. E’ cronica la mancanza ovunque di questi strumenti, che non avrebbero un costo elevato e che eviterebbero di sprecare il lavoro della polizia in continui controlli personali, spesso inefficaci.
Infine, la cosa più grave: l’affossamento della riforma (governo Gentiloni) dell’ordinamento penitenziario, vecchio di 43 anni. Disegnava un altro modello di carcere, sicuro ma attento ai processi di reinserimento sociale perché è documentato che la recidiva è inversamente proporzionale al lavoro. Più si sconta la pena in modo utile, imparando un mestiere, e meno poi si delinque quando si esce. A parte il fine rieducativo della pena, che pure dovrebbe essere assorbente, si tratta di un’impostazione utile alla società, che così con deve fronteggiare la reiterazione del crimine. Che oltre tutto era concepita in modo assennato, escludendo ogni automatismo. Si ottiene ciò che si dimostra di meritare, anche con il ripensamento della propria vita precedente.
Questioni mai affrontate seriamente, pretesti buoni per vie di fuga, o per immancabili propositi di condoni come rimedio dell’ultima ora. Accontentano i delinquenti, tranquillizzano le coscienze dei benpensanti a corto di idee, liberano spazio nelle carceri, scongiurano le rivolte, insomma tutto ok. Quanto alla sicurezza da garantire ai cittadini tutti, sarà per un’altra volta.
Il coronavirus coagula tutti le questioni in sospeso e provoca uno scossone all’impianto. Così, da ultimo, cadono le teste. Quella del capo del Dap, Basentini. Protagonista del più eclatante degli episodi di negligenza e trascuratezza. Che fa da detonatore. Il suo ufficio più volte non risponde al Tribunale di sorveglianza di Sassari sulle richieste di provvedere a trovare una nuova sistemazione sanitaria al boss camorrista Zagaria, lo fa solo a tempo scaduto quando ormai i giudici hanno deciso l’inevitabile scarcerazione.
La liberazione di Zagaria è di per sé scandalosa, ancorché inevitabile, ma si ricollega alla mancata predisposizione di attrezzature sanitarie adeguate a fronte dell’avanzata nel virus. E’ questo il vero nodo sul quale tutto si è aggrovigliato, fino ad far esplodere la situazione. Una grave sottovalutazione delle difficoltà cui il sistema sarebbe andato incontro, ampiamente prevedibili. Difficile non vedere le responsabilità politiche, non solo perché a volere il dimissionato Basentini è stato sempre il ministro Bonafede che ora ne ha avuto la testa, ma perché dall’inizio del mandato, nel 2008, la situazione non è cambiata, anzi si è aggravata. Non basterà cambiare il capo di un dipartimento per trasformare la vita in cella, e ancor più per restituire alle carceri sicurezza e dignità.

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