mercoledì 13 maggio 2020

La strana conversione di Silvia Romano all'Islam


Scalpore per la conversione di Silvia Romano all’Islam nella prigionia. Il mistero del rapporto tra vittima e carceriere, che spinge la prima ad abbracciare l’ideologia del carnefice

(ap*) Solo il tempo farà chiarezza, ci dirà qualcosa in più sulla “conversione” all’islamismo di Silvia Romano, la cooperante italiana liberata dietro il pagamento di un forte riscatto alla banda criminale jihadista di al-Shabaab che l’ha tenuta segregata per 18 mesi dal novembre 2018.
E forse nemmeno quello, il tempo, lo renderà possibile a lei stessa prima che a noi, cioè al pubblico. Una conversione reale, oppure indotta? E quale la dinamica, durante l’abbrutimento della prigionia in mani tanto ostili?
Appena scesa dall’aereo dei Servizi segreti che la riportava in Italia, prima ancora dell’abbraccio dei parenti, mentre filtravano le prime notizie, è apparso subito evidente il cambiamento radicale. Così diversa l’immagine che conoscevamo, qualche anno fa, che la ritraeva dopo la laurea, un tailleur, capelli raccolti, piccoli orecchini, una posa tranquilla piuttosto tradizionale. La ragazza che scendeva dalle scale dell’aereo era un’altra.
Una distanza abissale, nonostante il sorriso abbozzato, il cenno della mano. Era un altro sguardo. E poi quella veste ampia, fin troppo, lunga sino ai piedi, e il velo a coprire i capelli, appena impreziosito da un piccolo ricamo, un abito di cui non si sa l’origine (la divisa da carcerato?). Una conferma di quanto si andava dicendo, l’avvenuta conversione all’Islam durante la prigionia. Avvenuta spontaneamente, ha detto, nessuno l’ha costretta.
Non l’unico cambiamento in verità, la veste lunga era solo il più appariscente, su cui inevitabilmente si è soffermato lo sguardo di tanti, sorpresi dall’accaduto. Ma forse era anche il segno di un diverso diaframma, stavolta invisibile, ma non meno consistente, che separava Silvia da noi. Tra le tante pronunciate sulla conversione e i carcerieri, è mancata da parte di questa ragazza una parola sull’affetto con cui gli italiani hanno sempre seguito il dramma e sull’impegno profuso dallo Stato per la sua liberazione. Può darsi che anche questi elementi possano essere messi in conto, per dare conforto, a lei e alla famiglia, e aiutare a ricominciare. Noi, a cui quella parola è mancata, non ce ne crucciamo: a differenza dei suoi carcerieri, non ci aspettavamo uno scambio.
E’ stata lei a chiedere una copia del Corano, dopo i primi tempi in cui era stata molto male e aveva temuto di morire, poi aveva deciso di resistere, di farcela, ed è andata avanti. Nonostante tutto, il cambio delle prigioni, le giornate trascorse all’interno di stanze sempre chiuse, i lunghi trasferimento, persino otto ore a piedi da un luogo all’altro. Del resto, ha voluto ripetere, è stata «trattata bene», non ha «subìto violenze», né è stata indotta a «sposare qualcuno dei carcerieri o ad avere rapporti», un’illazione diffusasi non si sa su quali basi, e infine, al di là di ogni dubbio, non è «incinta».
Un argomento, quello dell’improvvisa conversione religiosa, in condizioni tanto precarie e difficili diventato subito dominante. Sfruttato dalla politica come pretesto per la ripresa della propaganda anti-immigrati (in quanto islamici anche loro); cavalcato nei social con disprezzo, sino ai più pesanti insulti: un vomito inqualificabile sulla ragazza, la sua giovane vita, la sua vicenda così straniante. Per tanti aspetti ingiudicabile.
Cosa sia accaduto durante il periodo di prigionia potremo forse scoprirlo, a fatica, perché tutto dipenderà dalle sue parole, mentre pochi saranno gli elementi che gli investigatori raccoglieranno dall’esterno. A parte, si intende, le notizie ben note sulle bande di criminali che infestano quella zona tra Kenia e Somalia, autori di sequestri, atti di terrorismo, stragi di innocenti, perché ci si sono messi in tanti. Informazioni che la dicono lunga sulla crudeltà dei rapitori.
La suddivisione dei compiti, la vita umana come merce di scambio, priva di valore. Quelli che hanno individuato la preda, gli altri che hanno realizzato il sequestro, poi gli intermediari, i carcerieri e infine i committenti. E poi tutti quelli delle trattative, chi ha mantenuto i contatti, chi ha trasportato Silvia di qua e di là, fino al luogo dello scambio a 30 km da Mogadiscio, quando infine l’hanno presa in consegna gli uomini dei Servizi. La vita di questa giovanissima ragazza in cambio di qualche milione di euro (dai due ai quattro, si dice), fondi riservati, di cui non rimarrà traccia, se non negli acquisti di nuove armi, nei rifornimenti di esplosivo e materiali di sostentamento, da utilizzare in altre imprese terroristiche.
Molto più complicato sarà capire cosa sia accaduto nella mente di Silvia prima di diventare Aisha. Prima che tutto crollasse e che si aggrappasse al Corano, che forse non aveva mai preso in mano prima, unico spiraglio in quella situazione opprimente. Non basteranno le indagini a svelarcelo e nemmeno le scelte che la ragazza potrà fare in futuro, come confermare la conversione o rinnegarla.
Sembrerebbe questa la via di uscita più chiara e fattibile: ora che è libera, e non ci sono condizionamenti, potrà dire come sono andate le cose. Troppo semplice. Sarebbe persino liberatorio rispetto ai dubbi che comprensibilmente si affacciano alla mente di ciascuno. Asfa Mahmoud, l’imam di Milano, ha osservato: «Nelle mani di gente assetata di sangue, difficile credere ad una conversione sincera».
Ma non sappiamo se accadrà, se sarà così immediato scavare dentro le proprie scelte, provare a mettere una distanza da tutto per rivedersi più da vicino. Quale rapporto si crea tra l’individuo e l’angoscia, tra la vittima ed il carceriere? Soprattutto qual è il passaggio mentale, emozionale che spinge la vittima ad abbracciare proprio l’ideologia distruttiva del suo carnefice?
La mente può rimanere imbrigliata a lungo, anche per sempre. Accadde la stessa cosa a Amanda Lindhout, la reporter australiana sequestrata da una cellula islamica, insieme a Nigel Brennan nell’agosto 2008, e liberata solo nel novembre 2009 dopo una prigionia brutale, in cui fu sottoposta a sevizie, stupri, vessazioni. Dovettero passare molti anni prima di dichiarare che si era «convertita per sopravvivere», dopo che aveva pensato al suicidio per uscire dall’agonia, e aveva cercato qualsiasi mezzo per farla finita, senza riuscirci. Chissà se Silvia, ora che ha più tempo, avrà voglia di leggerne la storia.

*Leggi La Voce di New York:
Silvia Romano e quella conversione all’Islam che ripete altre rapimenti simili
Qual è il passaggio mentale, emozionale che spinge la vittima ad abbracciare proprio l’ideologia distruttiva del suo carnefice?

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