giovedì 21 dicembre 2017

A testa in giù

La natura può avere una forza distruttiva, ma sono gli uomini che spesso non sanno contrastarla e diventano responsabili di tante rovine

di Paolo Brondi

Spesso la distruzione lavora meglio di qualsiasi muratore. Mentre un tempo l'elevazione vulcanica o la lenta stratificazione hanno innalzato la montagna verso l'alto, ora accade il contrario: pioggia o neve, decomposizione e declivio, disgregazione chimica, l'effetto del lento imporsi della vegetazione, o ripetute scosse di terremoto, contribuiscono a precipitare in basso parti della sommità e ad alterare la forma del suolo e tutto ciò che in esso esiste.
Ciò che dirige una costruzione verso l'alto è la volontà umana. Ciò che invece conferisce il suo aspetto attuale è la forza meccanica della natura, forza corrosiva e distruttiva che trascina verso il basso. Il significato della distruzione deriva, non solo dalla natura, ma pure dall'agire positivo dell'uomo e spesso dalla sua passività.
Sono gli uomini che lasciano andare in rovina l'opera umana, specie quando ricevuta in eredità dal passato, o per mera incuria, o, se si tratta di opera neo costruita, per maldestra giacitura in prossimità di latente pericolo. Fra il non ancora e il non più si situa quel rovesciamento dell'ordine consueto quale un ritorno alla buona madre, come Goethe definisce la natura.
E quando la rovina non è immediatamente distruttiva, paradossalmente, la natura, si riappropria dell'opera come accade ad alcune rovine urbane che sono ancora abitate, o a una costruzione molto antica, in aperta campagna, ove si nota spesso una vera e propria uguaglianza di colore con le tonalità del terreno circostante.
Gli influssi della pioggia o dei raggi del sole, della vegetazione, del caldo e del freddo assimilano la costruzione al colore della campagna, abbandonata al medesimo destino. Questi influssi riconducono il primitivo antitetico risalto dell'edificio alla pacifica unità di una coappartenenza. Sotto quest'aspetto la rovina reca l'impronta della pace.

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