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Te ne vai già?

Gli affetti, la mente, le curiosità della vita: il percorso di un giovane

Racconto
di Paolo Brondi

Non aveva ancora venti anni e già si comportava da vecchio. I suoi coetanei trascorrevano il loro miglior tempo agitando i piedi, calamitati da una selva di note, stringendo al petto le figure femminili di allora. Il loro discorrere, una sequela di ingenuità e di stupidaggini. Lui si traeva in disparte, assumendo verso gli avvenimenti serietà e rigore con il risultato di rendere anacronistico il suo corpo rispetto ad una società immemore di un futuro.
Si meravigliava che anche i non più giovani corressero ai divertimenti: la gente si riversava nei ritrovi, un’onda di macchine nascondeva il nero dell’asfalto ed era tutto un brulichio di chiacchiere, di sguardi, di sorrisi, ogni lembo di terra variopinto: qui la pubblicità, là la vetrina illuminata al neon, la diva procace in mostra ai margini della strada.
Un mondo di illusioni che lui sfuggiva per un’esigenza di onestà, di ordine morale cresciuta dall’infanzia in poi. Una rigidità che causava incertezze anche nel suo mondo affettivo. Non sentiva sicuro il bene rivolto ad una sua compagna di liceo, Marina, perché non gli pareva potesse ripagare tutto l’amore che lei gli donava e, del resto, la sua razionalità negava di sceglierla quale compagna della vita, benché già ne avesse i requisiti.
“Te ne vai già?”. Lei gli mormorava e lui annuiva con il capo e se ne andava lasciandola attonita e delusa. A lungo lei continuava a telefonargli, con voce già avvolta dal ricordo – “Il mio piccolo amore se ne è andato – diceva - i nostri baci, i nostri abbracci sono morti nel tempo. Rimane l’immagine senza suono, senza vita, nella mia mente”. E lui si trincerava nel silenzio. Mostro di razionalismo, le sue carezze, i suoi baci, le calde sue mani portavano all’apice la passione nei primi appuntamenti, ma poi, gradatamente diventavano misurati, plastici, fino all’atarassia.
Eppure sentiva l’esigenza di una vita più piena, ma non banalmente mediocre, bensì ricca di lavoro e pace, di serenità e poesia. Più avanti si rese conto che quella sua anaffettività era propria dell’intellettuale, senza il conforto o l’alibi della fede, tutto proteso ad esercitare la forza di volontà e la continua combustione della vita. Ne trovò alimento nel percorso universitario incontrando ottimi maestri.
Il prof. Manetti era fra questi il migliore e più amato. Durante gli esami si entusiasmava nel cercar di risolvere i misteri della psiche: “che cosa è l’immaginazione, che cosa è il pensiero?”, chiedeva più a se stesso che agli esaminandi e con una tale luce negli occhi, con tale anelito, che tutti lo ammiravano, silenziosi e invasati dal suo straordinario filosofeggiare. Mentre faceva domande disegnava cerchi facendo apparire, via via, circonvoluzioni, un piccolo nitido cervello, la mente così come la vede non il medico, ma il filosofo.
I suoi disegni erano i segni di una mente chiara, pensosi di pensieri sani, luminosi, trasfusi in lezioni belle e profonde, anche se difficili, come quando si inoltrava sulla “osservazione dell’autocoscienza nella sua purezza e nel suo rapporto con l’effettualità esterna; leggi logiche e psicologiche”, interpretando Friedrich Hegel e la sua Fenomenologia dello spirito. Faceva sudare le menti ancora acerbe degli studenti, ma anche li esaltava per tutto quello che andavano conquistando in quelle ore in cui chi sedeva in cattedra era un uomo, il caro prof. Manetti, che non nascondeva i suoi imbarazzi, le sue incertezze nel dipanare il sapere storico-filosofico-psicologico.
Non era il docente là sulla cattedra, ma la guida dei giovani, colui che s’arrampica sul monte, faticando con loro, i suoi allievi. S’interrompeva talvolta, per fumare il suo eterno sigaro, scendeva dalla cattedra, raccontava di sé, del suo bel mondo fatto di idee e di ricordi, e di lontane esperienze di liceale, quando aveva un professore così e così, un professore che neppure la notte dormiva per preparare le lezioni del giorno dopo. Un mondo che gli studenti capivano perché era il prof. a farlo capire, in quel modo misterioso, ma chiaro che fanno i veri maestri, capaci di trasmettere il concetto antico di insegnamento che è missione.

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