martedì 1 dicembre 2020

La strada dopo la ricaduta

La seconda ondata Covid è più angosciosa per la recidiva del male. La guarigione non è mai un passaggio senza inciampi. Accettare il presente è la strada per riappropriarci della vita

(Angelo Perrone) L’ondata d’autunno mostra, senza infingimenti o filtri, la crudeltà del dolore. Il male si era già manifestato nei mesi scorsi, ma stavolta è la recrudescenza a fare la differenza. E’ più cattivo il virus? Più violento ora che sembra aver superato ogni barriera, dall’età dei pazienti ai luoghi del contagio?
Non possiamo sottrarci a questa vista, girare lo sguardo altrove. Anche volendo. Troppo forte l’impatto. Proviamo un nodo alla gola. L’attenzione è calamitata dalle immagini. Corpi attraversati da sonde e cateteri, avvolti da tubi e cavi. Sono inermi e prostrati, debilitati dal virus in modo crudele e inumano. Eppure quei corpi raccontano l’umanità delle persone senza impietosire: mostrano la fragilità di fronte al nemico che invade le carni e ne prende possesso senza trovare ostacoli.
C’è ora una nuova iconografia del Covid, fatta di tragiche composizioni. Raffigurano le vite che combattono per sopravvivere, la pietà dei curanti, la pena dei congiunti lontani, la preoccupazione comune per la situazione che peggiora. Niente balconi festanti, piazze silenziose, selfie in maschera, canzoni popolari per reagire e infondere coraggio.
Simboli, quelli di primavera, di una resistenza motivata dall’entusiasmo e dalla fiducia. Nonostante i morti e la fatica di rispettare le regole. Ora sono stati messi da parte. Sostituiti dal senso di sgomento ed incredulità, dalla percezione che potremmo non farcela. Il risveglio è brutale. Il richiamo della realtà stordente. C’erano tanti smemorati e incoscienti in giro. Ora verrebbe da dire: non ci credevate? Avete sottovalutato il pericolo. E’ di questo, vedete – il male di questi giorni, refrattario al contenimento - che si parlava.
Intensità del virus e conseguenze: i punti cruciali oggi. Il Covid aggredisce le vite e stravolge ogni abitudine. Tutto l’orizzonte esistenziale è mutato. Il quotidiano è di nuovo rinunce e divieti. Paghiamo un prezzo in termini di libertà non proporzionale all’ampiezza delle restrizioni, e lo sentiamo più gravoso e pesante, persino ingiusto. Non riusciamo – come nei mesi scorsi - a trovare un mantra che dia sollievo, aiuti a farci tollerare i sacrifici in vista di una svolta.
Il sollievo estivo era fragile, fondato sull’illusione che il passato fosse ormai alla spalle. La percezione di una maggiore durezza nelle attuali limitazioni deriva da questo errore tragico: aver pensato che il più fosse superato, che si potesse davvero tornare alla vita di prima. C’è stato un rallentamento dell’attenzione e un eccesso di confidenza, pagati con la ripresa del contagio.
Ha fatto il resto il desiderio di ritornare alla vita di prima come se nulla fosse accaduto, senza cambiare mentalità, nonostante le tante chiacchiere. Ricordate i concetti che ridondavano in quella fase? Il lavoro intelligente, le città sostenibili con meno traffico ed inquinamento, la tutela della salute, il tempo speso sulla qualità: concetti presto abbandonati. La prima fase della pandemia non è stata occasione per cambiare sui temi della prevenzione, del benessere collettivo, della sicurezza sanitaria.
A queste cose si è aggiunta la scarsa previdenza. Chi sapeva non ha sfruttato la pausa per prepararsi alla seconda ondata. Colpa di politici e esperti certo, ma anche di coloro che hanno abbassato la guardia troppo presto. Che il virus fosse “addormentato”, in una parola meno aggressivo, non poteva crederlo nessuno. Non occorreva dar credito alle cialtronerie di negazionisti e scettici di varia estrazione. L’imprudenza ha nutrito condotte scriteriate, diventando antefatto della seconda ondata e causa di accelerazione dell’infezione.
Era inevitabile che ne fossimo accerchiati dopo l’estate. Mai è sembrato che il virus fosse tanto veloce nel colpirci. Le giornate sono scandite da regole mutevoli dettate da “indici”, che sino ad ieri non conoscevamo neppure. Numeri portatori di sciagure, restrizioni, divieti.
La crescita degli indici è un segnale scoraggiante nella lotta al Covid: indica il numero dei tamponi e degli infetti, la riduzione della capienza nei reparti di terapia intensiva, la proporzione tra casi risolti e esiti infausti, e naturalmente il termine finale, che dà la dimensione della tragedia: il numero di chi non ce la fa, e la composizione sociale ed anagrafica delle nuove vittime. Crescono i morti e c’è un abbassamento nell’età delle persone colpite. Tutti – non solo gli anziani e salvo forse i giovanissimi – possono essere infettati.
La diffusione dell’infezione non è omogenea e i territori sono distinti secondo statistiche, di contagi e situazioni sanitarie, sintetizzate attraverso differenti colori. Il giallo, l’arancione, il rosso non esprimono energia e allegria, come la loro vivacità farebbe immaginare. Piuttosto sono la “scala” di crescita dell’infezione.
La soglia tra un colore e l’altro è provvisoria, basta poco perché tutto cambi. Nessuno è davvero al riparo. Mai i confini sono stati così inadeguati a distinguere i destini personali con sicurezza. Si passa dai “salvati” ai “dannati” con un annuncio nel cuore della notte. Si tornerà indietro? Quando se ne uscirà? Domande che sanno di scongiuro. Gli annunci sui vaccini in uscita sono rassicuranti ma lasciano incerti sui tempi e sul numero delle persone che ne beneficeranno.
Tutto vacilla, è inevitabile chiedersi: si salveranno almeno gli affetti, le relazioni sociali, i rapporti umani in genere, e loro: gli amori? Le storie che turbano gli anni giovanili, che rimangono sorprendentemente verdi, che sopraggiungono da ultimo prima della chiusura del sipario dopo l’ultima recita. Riusciranno a sopravvivere nonostante le distanze e la mancanza di contatti? L’impulso o l’incoscienza porterebbero a dire sì, ma sarà dura. serviranno fatica ed impegno. 
Il cataclisma intanto ha travolto il lavoro. Sono entrati in crisi i modelli tradizionali fondati sulla presenza, e lo smart working è diventata una necessità inevitabile, ma è stato adottato in fretta, senza studio e preparazione per capire se e come praticarlo nei diversi settori. Si pensi alla scuola, a quanto è difficile immaginare l’insegnamento da lontano. Eppure chi rimane occupato è già fortunato. Gli altri il lavoro lo hanno perso, o devono barcamenarsi tra chiusure delle attività e precariato.
A rimetterci alla fine è anche il resto, che dava lavoro a tanti e serviva alla comunità. Che ne sarà dell’arte, dello spettacolo, dello sport, della cultura? Impossibile al momento nominare queste attività, classificate come non “essenziali”. Erano già incerte prima quando il tempo a disposizione era poco. Oggi è un mondo derubricato a causa di contagio. In un baleno la parola “divertimento” è diventata impronunciabile..
La luce alla fine del tunnel? Con l’arrivo del vaccino o di cure efficaci. Ma servirà che le fratture trovino un collante; che si sistemino le cose dalla sanità all’economia, che il marasma diminuisca. Ci vorrà tempo e solo così qualcosa di buono accadrà.
Oggi daremmo qualsiasi cosa per un lieto fine. Perché la storia si concluda al più presto e si riesca ad uscirne, ognuno per suo conto e tutti insieme. Possiamo cambiare a piacimento il termine che definisce questa conclusione. Almeno questa, di libertà, abbiamo conservata. Possiamo dunque immaginare che l’auspicato lieto fine sia un «abbraccio», un «contatto», una «parola» purché ravvicinata, una semplice «risata» ma finalmente senza paure. Non importa quale lieto fine, se è tale per ciascuno. Sarà comunque bello ed intenso.
Nel frattempo lo scenario rimane desolante. Cliccando sul telecomando assistiamo sempre alla stessa scena, letti di ospedale, visi sofferenti di pazienti, volti affannati di curanti, l’avvicendarsi di esperti e politici in un caleidoscopio variopinto di opinioni e previsioni. Una dimensione contraddittoria e straniante, che spesso lascia esterrefatti.
La comunicazione scientifica, sospinta bruscamente dall’urgenza di dare risposte, si avventura nel campo delle supposizioni e delle anticipazioni, deraglia dal suo campo e incorre in infortuni. D’altra parte è impossibile distogliere lo sguardo da questo scenario. Come farlo davanti ai tanti che la vita non sono riusciti a conservarla?
Avvertiamo alla fine due verità opposte ed inconciliabili, tutti auspichiamo un lieto fine e vorremmo avere fiducia, e nel frattempo abbiamo paura, proviamo l’angoscia dello smarrimento. Non riusciamo ad essere lucidi, ed il senso di tutto continua a sfuggirci, l’affanno blocca il respiro, per questo si alternano opposti stati d’animo. Stavolta più di prima si avverte uno spaesamento, la mancanza di punti di riferimento. Il difetto di coordinate che diano senso agli sforzi e indichino la meta.
È la recidiva che accresce lo stato di incertezza, alimentando oscuri presagi. Il passato non è servito a guarirci e renderci migliori; i sacrifici sono stati inutili. È la ripetizione oltre alla violenza stessa che accentua la gravità del male, creando angoscia e sfinimento.
Il contagio certo non è la «forma» eterna della convivenza sociale e passerà. Anche se non sappiamo quando. Intanto il ribellismo, lo scetticismo, l’incredulità hanno buon gioco, ma sono la risposta irrazionale all’oscurità del male e alla mancanza di una via di uscita. Il passato e il futuro sono appiattiti in un unico tempo, il presente, intriso solamente di angoscia e preoccupazione, senza orizzonti che diano senso e speranza.
La “normalità” del vivere, che auspichiamo, non può essere ripristino del vecchio ormai logoro e inadeguato, già apparso angoscioso, né fuga in avanti verso un domani qualsiasi: è riappropriazione della chiave giusta per discernere i passi da compiere, per scoprire il senso delle nostre azioni. Questo è il presente da desiderare: non ingannevole promessa, ma preparazione del futuro possibile.

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