mercoledì 2 ottobre 2019

L'astrofisico

Racconti dedicati a figure moderne e antichissime. Evocano suggestioni e pongono interrogativi. Oggi, l’astrofisico
Già pubblicati: L’attrice, Lo scrittore.

di Laura Maria Di Forti
Introduzione di Angelo Perrone

(ap) Antico quanto la storia stessa, lo studio degli astri ha sempre tradito lo stupore verso un mondo, quello celeste, percepito come tendente alla perfezione. Le sfere luminose lontane, le orbite lunghissime, gli orizzonti planetari sconfinati: una dimensione tanto sconosciuta quanto stupefacente, regolata da meccanismi precisi e sfuggenti. Forse perfetta, o quasi, proprio perché piena di misteri. Da ammirare prima di imparare a decifrarla. Da osservare con il timore che accompagna le cose grandi e inesplorate, minacciose e incombenti.
Uno scenario imparagonabile alla nostra terra, con le sue imperfezioni e malefatte, i confini scoperti, la sua piccolezza: entità infinitesimale di fronte all’immenso. Né l’impressione è mutata nel tempo, con il progredire delle conoscenze. Sappiamo molto di più: distinguiamo le stelle dai pianeti, le galassie dalle nebulose, dagli asteroidi. Proviamo a intrufolarci con i satelliti, cerchiamo di esplorare e capire il possibile.
Ma la lentezza si confronta con la velocità estrema, la brevità confligge con il tempo e lo spazio dell’universo. E’ uno scarto profondo tra possibilità e risultato, il mezzo e il fine, che va oltre ogni calcolo umano. Senza per questo però ispirare sfiducia e pessimismo, piuttosto attesa e sospensione emotiva.
L’uomo sperimenta una sete insaziabile di conoscenze, che lo ha motivato per secoli, da quando stelle e pianeti erano identificati con divinità arbitre del destino umano. Ma non rinuncia ad accompagnare quel bisogno scientifico con la meraviglia dei gesti e degli sguardi oltre sé stesso. Ogni nuova scoperta spaziale è espressione pure di altro: esplorare l’universo e le sue regole per capire meglio chi siamo e dove si stia andando tutti quanti.
“Che fai tu luna in ciel, dimmi che fai silenziosa luna?”: quella di Giacomo Leopardi non è solo ansia di informazioni su un pezzetto di universo che ci ruota attorno instancabile. Né canto malinconico, e pur sublime, di un grande poeta. È domanda che racconta l’inquietudine con cui l’uomo osserva ciò che non conosce, l’interrogarsi ammirato. Forse persino la percezione di un filo sottile che unisce lui così piccolo e fragile all’universo immensamente più grande: e che rappresenta, chissà, il senso ultimo di tutto.

Quando ero piccolo credevo che la luna camminasse con me, ossia mi seguisse ogniqualvolta decidessi di fare una passeggiata. Mio padre mi spiegò una sera che era un effetto ottico.
Verso i dieci anni cercai di contare le stelle. Mi trovavo in montagna, il cielo era pieno di punti luminosi, attorno il buio della notte. Arrivai a trecentododici, ma ad un certo punto feci confusione, ebbi paura di aver già contato un gruppo di dodici stelline apparse quasi improvvisamente alla mia sinistra e allora desistetti. D'altronde, pensai, quella che vedevo era solo una parte del cielo, non certo l’intero universo!
Terminato il liceo mi sono iscritto ad Astrofisica e Fisica dello spazio. Ora il mio lavoro consiste nel guardare il cielo, quasi come un innamorato in cerca di ispirazione o di certezza. Lo scruto, lo osservo e naturalmente lo catalogo.
In quanto ricercatore debbo studiare i fenomeni, interpretarli, devo formulare delle teorie e, ovviamente, dimostrarle. E tutto questo in fretta, correndo, cercando di arrivare per primo a pubblicare un articolo che dia fama all'istituto e a tutta l’equipe che mi supporta.
La competizione è un aspetto del mio lavoro, il più antipatico, certo. E d'altronde noi tutti scienziati siamo convinti di essere più bravi degli altri e non lavoriamo solo per amore della scienza, ma per dimostrare che come noi non c’è nessuno. E infatti molti miei colleghi sono degli arroganti e si credono infallibili, quando invece certe teorie, che all'inizio sono sembrate verità sacrosante, dopo qualche anno e dopo lo studio degli scienziati di altri istituiti, si sono rivelate allucinazioni vere e proprie.
Bisogna essere umili, invece. Dobbiamo studiare l’universo, non un ruscellino o un orto, e nemmeno una patata o un pesciolino. Abbiamo a che fare con miliardi di pianeti e di stelle a una distanza che ci dà il capogiro. Abbiamo di fronte l’infinito.
Quando scruto le stelle attraverso i cannocchiali astronomici, ho l’impressione quasi di poterle toccare e che esse sono lì, proprio in quel punto del cielo, solo per me. Ma poi mi ricordo di quando le contavo e allora mi rendo conto che le stelle sono così tante che nemmeno ora, con questi mezzi potenti di cui dispongo, mi è dato vederle tutte. 
No, l’universo è qualcosa di infinito e forse l’uomo non saprà mai cosa significhi questa parola. È un concetto astratto e quasi fa male al cuore il cercare di capirne il significato. Ci sono concetti incomprensibili che trascendono l’umana ragione, che rimangono avvolti dal mistero, dalla non comprensione.
Siamo esseri piccoli, infinitesimali rispetto a questo universo davanti al quale i poeti hanno sognato e si sono profusi in descrizioni e parole. Sì, solo parole, laddove noi scienziati abbiamo bisogno di fatti, cerchiamo il certo, la teoria da sperimentare, da provare senza ombra di dubbio. 
E allora troviamo nuovi pianeti e li cataloghiamo, cerchiamo altre stelle e ci domandiamo se sono già implose e quando.
Talvolta credo che i nostri meravigliosi cannocchiali altro non siano che strumenti di tortura, che noi non abbiamo il diritto di curiosare tra le galassie e di numerare i pianeti. 
Dovremmo limitarci a guardarli, forse, e come i poeti rimanere a bocca aperta di fronte alla loro bellezza. 
Non è conoscendo il numero esatto delle stelle che potremo dire di possederle o di essere loro amico. Non possediamo nulla, noi esseri umani.
Quando io guardo l’universo, penso che un Dio, un Essere Superiore che tutta questa meraviglia ha creato, deve pure esserci. Deve esserci un Dio che nella sua infinita sapienza ha progettato e ha realizzato. Pensare che tutta questa meraviglia sia solo frutto del caso, beh, sarebbe come pensare che i notturni di Chopin siano il risultato del tintinnio di foglie sotto il vento autunnale.
Me ne rendo conto quando, come da bambino, scruto il cielo nel buio della notte, solo, di fronte alla mia casa in montagna dove il buio è completo e non ci sono distrazioni, voci o rumori.
Solo io e la natura. Solo io e il cielo. Solo io e le stelle. E allora ho quasi paura, il timore di non essere in grado di percepire il respiro di questo universo che vuole solo rispetto e amore.

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