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giovedì 14 maggio 2020

Scuola, lavori in corso

Gli effetti del Covid-19 sono stati traumatici, ma la scuola ha attraversato continui momenti di trasformazione: in che direzione andare?

di Paolo Brondi

Il 28 febbraio scorso andava in onda una puntata di Presa Diretta, intitolata in modo profetico “Cambiamo la scuola”. E la scuola è cambiata, dall’oggi al domani. L’emergenza sanitaria è riuscita laddove non sono arrivati i ripetuti tentativi di riforma. Nella corsa dietro l’imperativo di cambiare e innovare, la scuola è stata superata dagli eventi stessi, con tutta la loro tragicità. Con un tempismo sfortunatamente azzeccato.
Ma che cosa ci siamo lasciati alle spalle? Ricorrono immagini  a colori vivaci: i colori della vitalità caotica delle classi di bambini e adolescenti ancora ignari di quel che sarebbe successo a breve; di insegnanti, non meno ignari, che cercano di conciliare l’insegnamento della materia a quello delle basilari norme igieniche, in cui anche il «prof, posso andare in bagno?» può trasformarsi in una lezione sull’importanza di lavarsi le mani.
Ricorrono immagini in bianco e nero: quelle che mostrano una scuola in un edificio grigio e pericolante – dove il sapone non sempre c’è. Quelle della emergenza scuola,  sul « fallimento del sistema scolastico»: le immagini che, puntando il dito sulle metodologie obsolete e l’incapacità di stare al passo coi tempi, mostrano i dati sull’abbandono scolastico, i risultati degli Invalsi e le classifiche Ocse-Pisa,  dati  spesso “inquadrati” erroneamente o senza una doverosa metalettura.
Ma tutte queste immagini sarebbero impoverite se non trovasse  posto fra esse il cambiamento già avvenuto:  quello degli ultimi dieci anni a seguito di due riforme (la riforma Gelmini e, soprattutto, la Buona scuola del 2015) che di cambiamenti ne hanno introdotti eccome: poco visibili forse per chi ne è fuori, o per chi ne ha vissuto solamente il periodo di un ciclo scolastico, macroscopici per chi vi è dentro da più tempo.
Affermare che la scuola è rimasta alla riforma Gentile del 1923 è tanto ideologico e ridicolo quanto negare i problemi reali della scuola: è il frutto della deformante nostalgia che  fissa nella  mente il ricordo di come era la scuola «ai suoi tempi», con tutti i suoi difetti e i suoi traumi, e ora vuole ridar vita proprio a quell’immagine lì, senza rendersi conto che la realtà nel frattempo è diventata qualcosa di ben diverso. La scuola, infatti è  cambiata di continuo, mossa da forze che vengono dall’alto ma anche dal basso.
Anche dentro di essa ci sono spinte conservatrici, soprattutto in chi vi sta dentro da più tempo, ossia i docenti Forse per questo nelle immagini  dell’emergenza,  fatta di numeri più che di persone, spesso mancano proprio loro, i testimoni del «prima» e del «poi», occultati per dar libero spazio all’innovazione che ha da venire; un’innovazione raccontata piuttosto da neuroscienziati, pedagogisti, formatori e curatori di piattaforme web, datori di lavoro che esprimono le aspettative della scuola del futuro.
Ma vale la pena interrogarsi sul fatto che la maschera del cambiamento e dell’entusiasmo innovativo si sgretola velocemente,  se questo futuro arriva senza adeguati strumenti e ripensamenti che permettano di “viverlo” effettivamente in tutte le componenti che abitano la scuola. Nel delirio disorganizzativo di ora, se provassimo a ripetere l’esperimento delle immagini, molti elementi apparirebbero in modo più nitido e distinto, così da mostrare più chiaramente chi sta in primo piano e chi sta sullo sfondo.
Basterebbe poi confrontarla con qualche foto «della scuola come era prima»: oltre all’effetto nostalgia, la parte costruttiva dell’esperimento ci permetterebbe di riempire qualche vuoto, raddrizzare qualche immagine deformata e farci ben vedere quegli elementi imprescindibili per quando, una volta finita questa emergenza, ci chiederemo: «E ora che cosa vogliamo davvero cambiare?».

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