(Angelo Perrone) Le dimissioni del direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, hanno creato un’agitazione inconsueta. Sono le conseguenze possibili del gesto ad animare il dibattito. E a limitarlo. Ci sarà una discesa in politica dell’uomo che finora ha guidato la macchina del fisco?
La chiave per leggere la decisione è quella, adottata in tanti altri casi, degli effetti, temuti o auspicati. Stavolta il riferimento è all’area centrista, È questo il motivo per cui la discussione si concentra (e purtroppo si esaurisce) sul tema della ricerca del possibile “federatore”.
Si cerca qualcuno di buona volontà che voglia e sappia mettere d’accordo le tante voci stridenti. Si dà per scontata la dissonanza tra i soggetti; così l’unica cosa è sforzarsi di tenere a bada le rivalità e far convivere protagonismi accesi, dato che è impossibile un sentire comune.
La ricerca di questo soggetto è predominante, alterna nomi e ipotesi secondo i momenti. Fin qui si era pensato a Giuseppe Sala, il sindaco di Milano, ora è il turno di Ruffini, che peraltro dichiara di volerne rimanere fuori, non sono questi i suoi intendimenti. Il metodo per uscire dal pantano è chiaramente inadeguato e perciò fallimentare.
C’è una differenza vistosa, sembrerebbe, con il mondo moderato dell’altra parte, quello che si identifica in Forza Italia. Che si ha l’ardire di presentare il post-berlusconismo come versione moderna e credibile della posizione politica liberale.
Non che vada meglio con gli altri ipotetici cespugli dell’immaginaria Quercia che un tempo si chiamava Ulivo, e poi non si sa più come denominare. Il Pd almeno ha scelto una linea di sinistra che porta la segretaria a manifestare davanti alle fabbriche in crisi ricollegandosi al mondo del lavoro e soprattutto a professare indefessamente un intento “unitario” a dispetto delle ripicche altrui.
Ma il movimento 5Stelle di Giuseppe Conte rivendica un tratto post-ideologico svincolato per principio da consonanze ideali, perché orgogliosamente privo di radici culturali e storiche. Mani libere e disponibilità a qualsiasi posizione faccia guadagnare voti, sia pure precariamente. Un progressismo anomalo e distorto.
Si conferma la difficoltà di elaborare un’alleanza tra mondi, istanze e sollecitazioni diverse. Con i reduci del populismo grillino, e ora, come mostra la vicenda di Ruffini, anche con coloro che si richiamano idealmente al mondo cattolico o liberale. Il campo moderato è attraversato da individualismi esasperati che nuocciono alle convergenze per un progetto di rinnovamento del Paese.
Solo che a destra il cemento irresistibile, che tiene insieme tutti, è la finalità di potere, perseguita a dispetto di qualsivoglia divergenza. Mentre nel resto del Paese, variamente composto e orientato, l’inguaribile protagonismo infantile degli attuali esponenti incrina qualsiasi proposito. Proprio la vicenda delle dimissioni di Ruffini segnala questa discrasia tra problemi reali e loro rappresentazione, con conseguenze drammatiche per chi auspica una politica riformista e per le sorti del Paese.
Forse il profilo più utile di questa vicenda non è discernere se Ruffini intenda scendere o meno in campo, come si dice. Piuttosto discutere alcune idee ed argomentazioni, che magari possono tornare utili a tutti.
C’è il disagio personale e professionale a convivere, per la prima volta, con il governo in carica, ma contano di più le ragioni di fondo. È inaccettabile per esempio l’idea, professata anche a livello ministeriale, che la tassazione sia una sorta di pizzo di Stato, che determini la vessazione del cittadino, così equiparando il fisco ad estorsori criminali.
Si diffonde una versione caricaturale e sbagliata dei funzionari pubblici (in questo caso il fisco, ma il discorso può essere esteso ad altri, come i magistrati) che fanno solo il loro dovere nell’interesse della collettività. La conclusione più dirompente è che, da parte di questa destra estrema a disagio con la Costituzione, venga indicato come divisivo e fazioso il semplice richiamo al rispetto delle leggi e alla legalità.
La lezione da trarre è che si assiste allo smarrimento di ciò che unisce e tiene insieme una comunità, se valori fondanti come la Costituzione o l’uguaglianza non sono più avvertiti come tratti comuni e imprescindibili.
Per questo motivo, più che cercare federatori di brandelli sempre più effimeri della politica attuale o improbabili salvatori della Patria, serve altro. Avere a cuore i valori su cui siamo cresciuti, a cominciare dall’idea del bene comune e degli strumenti istituzionali che lo salvaguardano. La politica rimane un’avventura collettiva.