(Altre riflessioni in Critica liberale, 17.12.24, “Ruffini, il monito alla politica”)
(Angelo Perrone) Le dimissioni del direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, hanno creato un’agitazione inconsueta. Sono le conseguenze possibili del gesto ad animare il dibattito. E a limitarlo. Ci sarà una discesa in politica dell’uomo che finora ha guidato la macchina del fisco?
La chiave per leggere la decisione è quella, adottata in tanti altri casi, degli effetti, temuti o auspicati. Stavolta il riferimento è all’area centrista, È questo il motivo per cui la discussione si concentra (e purtroppo si esaurisce) sul tema della ricerca del possibile “federatore”.
Si cerca qualcuno di buona volontà che voglia e sappia mettere d’accordo le tante voci stridenti. Si dà per scontata la dissonanza tra i soggetti; così l’unica cosa è sforzarsi di tenere a bada le rivalità e far convivere protagonismi accesi, dato che è impossibile un sentire comune.
La ricerca di questo soggetto è predominante, alterna nomi e ipotesi secondo i momenti. Fin qui si era pensato a Giuseppe Sala, il sindaco di Milano, ora è il turno di Ruffini, che peraltro dichiara di volerne rimanere fuori, non sono questi i suoi intendimenti. Il metodo per uscire dal pantano è chiaramente inadeguato e perciò fallimentare.
C’è una differenza vistosa, sembrerebbe, con il mondo moderato dell’altra parte, quello che si identifica in Forza Italia. Che si ha l’ardire di presentare il post-berlusconismo come versione moderna e credibile della posizione politica liberale.
Non che vada meglio con gli altri ipotetici cespugli dell’immaginaria Quercia che un tempo si chiamava Ulivo, e poi non si sa più come denominare. Il Pd almeno ha scelto una linea di sinistra che porta la segretaria a manifestare davanti alle fabbriche in crisi ricollegandosi al mondo del lavoro e soprattutto a professare indefessamente un intento “unitario” a dispetto delle ripicche altrui.
Ma il movimento 5Stelle di Giuseppe Conte rivendica un tratto post-ideologico svincolato per principio da consonanze ideali, perché orgogliosamente privo di radici culturali e storiche. Mani libere e disponibilità a qualsiasi posizione faccia guadagnare voti, sia pure precariamente. Un progressismo anomalo e distorto.
Si conferma la difficoltà di elaborare un’alleanza tra mondi, istanze e sollecitazioni diverse. Con i reduci del populismo grillino, e ora, come mostra la vicenda di Ruffini, anche con coloro che si richiamano idealmente al mondo cattolico o liberale. Il campo moderato è attraversato da individualismi esasperati che nuocciono alle convergenze per un progetto di rinnovamento del Paese.
Solo che a destra il cemento irresistibile, che tiene insieme tutti, è la finalità di potere, perseguita a dispetto di qualsivoglia divergenza. Mentre nel resto del Paese, variamente composto e orientato, l’inguaribile protagonismo infantile degli attuali esponenti incrina qualsiasi proposito. Proprio la vicenda delle dimissioni di Ruffini segnala questa discrasia tra problemi reali e loro rappresentazione, con conseguenze drammatiche per chi auspica una politica riformista e per le sorti del Paese.
Forse il profilo più utile di questa vicenda non è discernere se Ruffini intenda scendere o meno in campo, come si dice. Piuttosto discutere alcune idee ed argomentazioni, che magari possono tornare utili a tutti.
C’è il disagio personale e professionale a convivere, per la prima volta, con il governo in carica, ma contano di più le ragioni di fondo. È inaccettabile per esempio l’idea, professata anche a livello ministeriale, che la tassazione sia una sorta di pizzo di Stato, che determini la vessazione del cittadino, così equiparando il fisco ad estorsori criminali.
Si diffonde una versione caricaturale e sbagliata dei funzionari pubblici (in questo caso il fisco, ma il discorso può essere esteso ad altri, come i magistrati) che fanno solo il loro dovere nell’interesse della collettività. La conclusione più dirompente è che, da parte di questa destra estrema a disagio con la Costituzione, venga indicato come divisivo e fazioso il semplice richiamo al rispetto delle leggi e alla legalità.
La lezione da trarre è che si assiste allo smarrimento di ciò che unisce e tiene insieme una comunità, se valori fondanti come la Costituzione o l’uguaglianza non sono più avvertiti come tratti comuni e imprescindibili.
Per questo motivo, più che cercare federatori di brandelli sempre più effimeri della politica attuale o improbabili salvatori della Patria, serve altro. Avere a cuore i valori su cui siamo cresciuti, a cominciare dall’idea del bene comune e degli strumenti istituzionali che lo salvaguardano. La politica rimane un’avventura collettiva.
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