(Angelo Perrone) La foto apre un sipario. Ci sono loro, gli attivisti della Flottiglia, seduti o accalcati in un angusto scafo. Qualcuno sorride appena. Le loro mani sono in aria. Nessun pugno, nessuna pietra, nessuna bandiera minacciosa. Solo il gesto della resa, il contrario di ciò che il mondo si aspetta in uno scontro: non la forza che resiste, ma la forza che si sottrae.
E poi ci sono gli altri, fuori campo o appena accennati. Sono lì per applicare l'arbitrio della forza, per ristabilire l'ordine, al prezzo della violazione della legge del mare. Possono farlo, abbordare un convoglio pacifico ed inerme, applicano la nuova giurisdizione, la legge che vale solo fino a un certo punto,, così predica il ministro Tajani.
C'è ironia in quella scena. Gli attivisti sono a mani vuote perché il loro carico non è fatto per la battaglia. Ciò che portano è pensato per aggiungere, non per togliere. La sensazione si accompagna ad un fondo di melanconia, vedere la gentilezza equiparata al terrorismo nella logica perversa del ministro israeliano Ben Gvir, la compassione disarmata è confusa con la minaccia grave.
La bellezza di quel gesto — le mani in alto — non è nella protesta riuscita, ma nel segno che lascia, come un graffio sulla coscienza collettiva, raccolto da moltitudini nelle piazze. Sono il fragile filo di seta della legge, un filo che, una volta strappato, dimostra la fragilità del diritto di fronte alla forza bruta, ma anche la bellezza tenace di chi continua a tesserne i frammenti. Hanno avuto il coraggio di affrontare la forza arbitraria con l'integrità del gesto.
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