giovedì 28 novembre 2019

Svelto di parola

In un lembo immaginario della Sardegna, il ribelle Ranieri se ne va di casa, libero da costrizioni. Come sbarca il lunario? Un lavoro con i braccianti. Ma forse è solo una diceria

di Bianca Mannu
(Tratto dal libro Da Nonna Annetta, ed. La Riflessione, 2011)

Ranieri era nato povero e primo di una numerosa schiera di fratelli minori. Sua madre, rimasta vedova e senza terra, doveva faticare non poco per accudire altri cinque mocciosi, la sola eredità che il marito le avesse lasciato. Rimediava la sopravvivenza lavando al fiume la biancheria di numerose famiglie benestanti, compresa quella di nonna Annetta. Ma neppure con un po’ d’orto e di galline ovaiole campava.
Stretta dai bisogni crescenti, Pinotta aveva più volte tentato di mandare il figlio maggiore a servizio, come servo pastore o bovaro. Ma Ranieri si era sempre ribellato; e più d’una volta prese la fuga. L’ultima volta fece perdere le sue tracce per intere settimane, tanto che lo pensarono morto. Invece tornò a casa di notte, più nero e più lungo che mai, ma col sacco pieno di tutto ciò che di commestibile era riuscito a predare nelle campagne e nelle capanne incustodite dei pastori. E alla madre, che voleva rimandarlo a servizio, minacciò il suicidio. Si sarebbe impiccato al noce che sorgeva, solitario e imponente, sul lato est della scarpata sovrastante il loro abituro.
“Se morirai impiccato, non sarà certo per colpa mia. Però gira al largo, perché a te da mangiare non ne do”, affermò recisamente Pinotta.
Da quel momento Ranieri visse libero come un uccello: bazzicava ancora le campagne, specialmente quelle tra Mandara e Isoli, meno brulle, con chiusi più grandi e orti e ovili. Là c’era sempre la speranza di rimediare qualcosa. A Gesòli lo si vedeva di rado. Si seppe poi che s’era intruppato fra le compagnie dei braccianti, i quali nel periodo della semina, della zappatura, della sarchiatura e del raccolto, giravano i paesi offrendo manodopera.
Così lui, svelto di lingua come lo era di fiuto, divenne una specie di capoccia. Trattava ingaggi e soluzione di contratti per singoli e per gruppi; sulla parola, s’intende; perché leggere sapeva poco o niente, e scrivere, neanche a parlarne. Però si raccontava che fosse abile nell’ottenere buoni contratti a promessa, ma più ancora nello spremere margini di agio dai proprietari dei campi come dai lavoranti. Ma era più quello che si diceva di quanto realmente facesse.
Pinotta continuava a lavare, ma forse con minore esasperazione. Aveva spedito a servizio la sorella contigua di Ranieri e incassava il suo piccolo salario; senza contare che non le pesava più il suo mantenimento. Anzi da quei padroni qualcosa pioveva sempre, almeno per le feste. Sentendosi appena sollevata nel carico di lavoro, pensò bene facilitarsi l’onere di sfamare meglio le bocche rimaste. Incrementò l’allevamento dei polli, di cui vendeva le uova nella bottega dove “teneva libretto”, e inoltra ingrassava il maiale. Dapprincipio uno solo, poi due. E così rimediava il grasso da condimento per tutto l’inverno e oltre. E ne vendeva persino ai lavoranti di passaggio: a quelli più poveri, che non potevano spendere per comprare un companatico migliore.
Dei quattro ragazzini rimasti a casa, due li sguinzagliava nelle campagne circostanti per procurare erba e mangimi di fortuna per le bestie (qualche po’ di crusca gliela procurava Ranieri, quando, avendo procurato qualche bene, tornava dal suo lungo giro). Gli ultimi due mocciosi avevano bazzicato l’asilo e preso il caffellatte gratis dalle monache; e ora facevano irruzioni a scuola con profitto incerto. La sera si tiravano dietro una capra e frequentavano i dirupi umidi, dove prosperavano gli arbusti.

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