venerdì 10 aprile 2020

Mani, parola simbolo del Covid-19

Giudizio universale, Cappella Sistina, Roma
Il Covid-19 ha un proprio linguaggio? Il termine più ricorrente è “mani”, fonte di contagio e di pericolo. Alla parola sono associati in genere significati tra il positivo ed il negativo, ma nessuna più di questa evoca un senso di vitalità positiva. La forza utilizzata dall’uomo in tante imprese

(ap*) Le tragedie portano con sé cambiamenti di ogni tipo. Ne esce stravolta la realtà. Ma ci sono anche novità nel modo di rappresentarla e di raccontarla, cioè nella lingua usata: parole, metafore, modi di dire. Termini che si diffondono, e mettono radice nelle relazioni, negli articoli di giornale, nelle chiacchiere. Insieme ai concetti scientifici propri del Covid-19, finora sconosciuti ai più. L’emergenza sta creando un terremoto linguistico, modificando anche il significato proprio delle parole più comuni? Un altro lessico fondamentale?


“Mani” è la parola-chiave del coronavirus, quella alla quale maggiormente si fa riferimento nel contrasto alla diffusione del virus. Non ci sono raccomandazioni, consigli, discorsi in cui non si parli di loro. Lavare bene e ripetutamente le mani, non toccarsi il viso con le mani, non stringere le mani degli altri: queste le avvertenze principali, poi vengono tutte le altre avvertenze, i divieti per il distanziamento sociale.

Se non seguiamo le precauzioni, se non impariamo in fretta ad usare le mani in modo corretto, potremo contagiarci. Staremo male e forse moriremo. Scopriamo che le mani possono farci del male. Che noi stessi possiamo causarci l’irreparabile. Dalle mani viene almeno un pericolo, talvolta un danno grave. E’ come aver paura di noi, temere il nostro corpo. E responsabili sono loro, le mani. Le nostre. Mai come in questa epidemia siamo costretti a guardare a noi stessi con una preoccupazione così forte, a guardare ad una parte essenziale del corpo con diffidenza.

Non ci eravamo ancora resi ben conto che l’epidemia potesse incidere tanto pesantemente persino sul significato delle parole. Che poi è soltanto lo specchio dello stravolgimento della nostra esistenza. C’è davvero un mutamento semantico? Un cambio radicale di senso della parola “mani” dopo il coronavirus? Qualcosa di definitivo? Non proprio. In realtà, seppure non in questo modo, vi è sempre stata una varietà di significati nei riferimenti linguistici alle mani. La “fortuna” della parola, e, per così dire, delle mani stesse, è stata spesso oscillante ed alterna. Evocando al tempo stesso il positivo ed il negativo.

Pilato se le lavò per esempio, pur senza usare il sapone, come è necessario oggi. Non l’avesse fatto, il corso della storia sarebbe stato diverso. E non per mancanza del gel disinfettante. Fu proprio sbagliato, come sappiamo, il fatto di lavarsele, pessima idea. Che sfortuna, per il console romano in Galilea, diventare famoso per un gesto semplice che denota pulizia e buona educazione, come il lavaggio delle mani. Che male c’è farlo prima di una decisione importante?

Non altrettanto, come si diceva, accade oggi. Ai tempi del Covid-19 è molto consigliabile lavarsi le mani, anzi è proprio imposto dalla prevenzione, oltre a essere opportuno per esigenze igieniche. Lo sanno tutti che serve a evitare contatti diretti, insieme ai divieti di uscire e di incontrare gente. Tutti, meno gli ottusi che non usano guanti e mascherine, o che non rinunciano alla corsetta giornaliera o al pic nic domenicale nei prati. Il primo accorgimento è sempre quello, lavarsi spesso e a lungo le mani.

Le mani, quasi un “destino” variabile nel tempo. Termine che suggerisce diversi scenari. Appartenente al lessico fondamentale, cioè al nucleo di parole di uso corrente, può avere molte implicazioni. La parola è rappresentazione di un oggetto, del quale sono concepibili svariati impieghi. Fondamentalmente questo nostro arto così importante è strumento di morte, oppure opportunità di sopravvivenza, mezzo del fare bene? Non si sfugge al  dilemma nemmeno guardandosi un po’ indietro, o pensando alle nostre abitudini, o al gergo usato in tempi diversi.

Tangentopoli, per rimanere ad un’epoca recente, diversamente tragica quanto agli effetti, ci ha lasciato una storia che aveva a che fare con le mani: sembrò nuova, ma era vecchia. Le “mani sporche” scoperte un po’ ovunque, nei partiti e ambienti collegati. Contrastate dal loro opposto, le “mani pulite”. Corruzione, malaffare, tornaconto politico. Col senno di poi magari, avrebbero potuto accampare, le mani sporche, la scusa di non essere state messe in guardia, come si fa ora con il Covid-19. Con scarso successo.

Nessuno allora aveva raccomandato con tanta insistenza di stare attenti alle mani, di lavarsele di continuo. Però si illudevano di non sporcarsi per magia, nonostante i metodi torbidi usati. Cadde comunque una Repubblica, detta la prima. Da non rimpiangere, anche se certe volte fa persino un figurone a confronto con l’attuale. In ogni modo, a parte quest’esito, non fu un bello scenario, quello cui abbiamo assistito. Di tutte quelle “mani sporche”, avremmo fatto volentieri a meno.

Può darsi che una certa ambiguità sia insita nel concetto stesso, nella realtà a cui rimanda. O forse nella molteplicità di significati della lingua italiana.. Suonare il pianoforte a “quattro mani” fa pensare a una riuscita comunione di intenti nella creazione di un suono. Avere le “mani di velluto” è sinonimo di gentilezza d’animo. Ma avere le “mani bucate” identifica una persona spendacciona. A “piene mani”, un soggetto ingordo ed incontentabile. “Mani in alto” suscita paura: è l’avvertimento del rapinatore di strada. O smarrimento. Un segno di resa. Ancora, “a portata di mano” non ha un significato netto, conserva il fascino del doppio senso: lo è una cosa facile da usare, ma anche un’altra a cui non ci si deve avvicinare perché pericolosa.

Negli artisti, c’è sempre stato un apprezzamento per le mani. Si capisce. Non soltanto sono le loro, ma servono parecchio nel mestiere: scrivere, dipingere, suonare. Sono strumento di lavoro, modo di esprimere la passione. Le hanno anche cantate ed elogiate, con slancio poetico. Dalle mani in fondo dipende la loro avventura esistenziale. “Pensare è lavoro della mano”, osservava Martin Heiddeger. Uno strumento così importante, da diventare parte della mente stessa, sua articolazione. Più semplicemente, non dimentichiamo, per rimanere nel campo dell’arte, che con le mani si aprono i libri, si scrive sulla tastiera, si impugna un pennello per dipingere. E’ la strada verso le idee.

Ma le mani sono altro, rendono manifesto e concreto i sentimenti, le passioni. Guardiamo ai lati positivi, anche se conosciamo pure l’uso maldestro o violento che se ne possa fare. Permettono di toccare l’amato/a. Mostrano affettività. Regalano carezze a sé e agli altri. Le mani avevano indotto Alda Merini a chiedersi quanto “pesassero”. Folgorante espressione per attribuire allo strumento – le mani – il risultato ottenuto, cioè la quantità di piacere provocata. “Sono uccelli che cercano orizzonti/uccelli che cercano pace/pane quotidiano degli angeli/ali che cercano refrigerio”. Le mani esprimono affetto, amore, erotismo: la madre le usa per prendersi cura del figlio, l’amante per compiere gesti pieni di sensualità.

Ci assale il dubbio di aver dimenticato qualcosa, per decifrare il mistero ultimo della parola “mani”. Ammesso che ne nasconda davvero uno. Una visione accompagna il nostro immaginario. L’immagine è ben viva, piena di forza e di luce. Lui è adagiato sulla roccia, in uno spazio erboso, lo sguardo perso, una bella figura ma senza forza, il braccio fa leva sulla gamba perché non riesce a sollevarsi. Gli manca qualcosa di essenziale. L’altro viene dal cielo e rivolge la mano verso di lui. Le braccia di entrambi sono tese, e ravvicinate. Ma con significati diversi, il dare e il ricevere. E’ il momento dell’impulso, sembra un ordine potente. La scintilla di Dio trasmette il soffio vitale al primo uomo, Adamo.


Nulla sarà come prima per lui, nonostante l’uso nefando che possa fare delle sue mani. Ne siamo certi. Quell’essere adagiato mollemente si risveglia e ha spirito vitale. Un soffio regalato proprio dalle mani dell’altro. E ricevuto, dentro di sé, attraverso le mani. Dipenderà da lui, dall’uomo che ora ha la forza di reagire, come adoperarle. L’uso saggio o deplorevole del proprio corpo, della sua anima. La creazione dell’uomo, nell’affresco del Giudizio universale di Michelangelo nella Cappella Sistina, è la più potente rappresentazione della forza dell’immateriale. Sono proprio le mani a celebrare il mistero. Le mani più celebri della pittura moderna. E della storia.

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