(Angelo Perrone) Succede all’improvviso, come quando un’onda di vento spalanca una finestra e il ricordo ti piomba addosso.
Stamattina ero in fila al panificio, distratta dal telefono e dalle notifiche che lampeggiavano a raffica, quando il profumo del pane appena sfornato mi ha riportata altrove. Non a ieri, non a un mese fa, ma a un mattino di molti anni prima, nella cucina della nonna.
A dire il vero, di solito mi dimentico di tutto: dove ho appoggiato le chiavi, cosa avevo in programma per il pomeriggio, persino il nome di chi ho incontrato dieci minuti prima.
Ho sempre scherzato su questa testa tra le nuvole, ma oggi l’ho sentita diversa, come se quella fragilità fosse anche una forza. Perché, mentre aspettavo il mio turno, ho rivisto il tavolo di legno scuro della nonna, le mani infarinate che impastavano con un ritmo antico, la radio sintonizzata su una canzone che nessuno ricorda più.
Nella mia memoria la cucina brillava di una luce tiepida, filtrata da una tendina ricamata. Io, bambina, restavo a guardare incantata la danza delle mani che trasformavano la farina in qualcosa di vivo. «Il pane ha bisogno di tempo, non di fretta», diceva lei.
Allora non capivo: pensavo solo alla fame che mi mordeva la pancia. Adesso so che parlava di molto più che di impasti e lieviti: parlava della pazienza che serve per far crescere ogni cosa che conta.
Mi rivedo seduta su una sedia troppo alta per i miei piedi, che penzolavano nell’aria, mentre lei aggiungeva acqua con movimenti misurati. Ricordo l’odore dell’olio d’oliva che scivolava sul tavolo, il ticchettio della pendola appesa al muro, il fruscio delle sue gonne lunghe quando si voltava per controllare il forno a legna. E la sua voce, bassa ma decisa, che ogni tanto canticchiava vecchie canzoni partenopee, quelle che – diceva – «aiutano il pane a lievitare felice».
Oggi capisco che erano preghiere domestiche, piccole invocazioni al tempo e alla vita. Mentre la fila avanzava a scatti, i rumori del presente sembravano attutiti. Sentivo solo il crepitio immaginario del fuoco, l’aroma dolce della farina tostata, il battito regolare del mio cuore che si accordava a quello dei ricordi. E mi sono resa conto che la memoria non è un archivio inerte: è un forno sempre acceso, capace di riscaldare all’improvviso ciò che pensavamo perduto.
Quando il fornaio mi ha finalmente consegnato la mia pagnotta calda, il cellulare ha trillato di nuovo e il presente è rientrato di prepotenza. Eppure il ricordo non è svanito. Ho camminato verso casa stringendo il sacchetto come fosse un talismano, respirando a fondo quell’aroma che sa di casa e di radici.
Ogni passo mi sembrava un ponte invisibile tra il mondo di oggi e quella cucina lontana, dove mia nonna mi sorrideva senza fretta, come se mi aspettasse da sempre.
Forse la memoria funziona proprio così: ci lascia vagare distratti e poi, in un istante, ci riporta esattamente dove dobbiamo tornare. E mentre il pane tiepido mi scaldava le mani, ho capito che certe presenze non se ne vanno davvero. Restano lì, come lievito silenzioso dentro di noi, pronte a far crescere, a ricordarci che il tempo – quello vero – è fatto di attese, di cura e di amore semplice.
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