Diario di
Valeria Giovannini
(Angelo Perrone)L’adozione, in un diario. Una madre, che ha affrontato questa straordinaria
esperienza, racconta le aspettative e le delusioni vissute in un intreccio
tumultuoso di sentimenti contraddittori.
Un percorso complicato, non solo per le difficoltà burocratiche. Perché costringe a fare i conti con le insicurezze individuali, si accompagna agli eventi talvolta drammatici della vita personale, è scosso dai timori per l’avvenire. Mai così esile si mostra il confine tra la morte e la vita, tra lo smarrimento e la speranza, tra ciò che si lascia per sempre e ciò che si immagina di costruire. Un mondo ignoto che porta a guardarsi dentro, ad interrogarsi, a cercare risposte capaci di dare pace, spesso alternando il pianto alla gioia. Piccoli passi ogni giorno, per ritrovare se stessi, l’autenticità della propria dimensione di donna, la verità del sentirsi uomini. Sino alla scoperta che quel bimbo venuto da tanto lontano, con un altro colore di pelle, così povero e smarrito, bisognoso di tutto, porta con sé il dono più prezioso, l’amore senza tempo, quello tutto speciale tra un figlio e sua madre. Quel bambino soltanto. Quell’unica madre. Semplicemente.
Un percorso complicato, non solo per le difficoltà burocratiche. Perché costringe a fare i conti con le insicurezze individuali, si accompagna agli eventi talvolta drammatici della vita personale, è scosso dai timori per l’avvenire. Mai così esile si mostra il confine tra la morte e la vita, tra lo smarrimento e la speranza, tra ciò che si lascia per sempre e ciò che si immagina di costruire. Un mondo ignoto che porta a guardarsi dentro, ad interrogarsi, a cercare risposte capaci di dare pace, spesso alternando il pianto alla gioia. Piccoli passi ogni giorno, per ritrovare se stessi, l’autenticità della propria dimensione di donna, la verità del sentirsi uomini. Sino alla scoperta che quel bimbo venuto da tanto lontano, con un altro colore di pelle, così povero e smarrito, bisognoso di tutto, porta con sé il dono più prezioso, l’amore senza tempo, quello tutto speciale tra un figlio e sua madre. Quel bambino soltanto. Quell’unica madre. Semplicemente.
Un elefantino. D’un tratto ebbi la percezione che mi avrebbe portato
fortuna. E il giorno dopo è suonato il telefono “C’è un bambino per voi”. Un
bambino atteso da sette anni. Una gestazione più lunga persino di quella delle
elefantesse. Loro partoriscono dopo quasi due anni.
“Il suo utero è pronto per ricevere tanti bei bambini”. Me la tira addosso.
Vuole rassicurarmi. Non ci credevo fino in fondo. Sensazioni. Forse immotivate.
Ma l’intuito grida più forte della ragione. Meglio lasciarlo gridare.
Difficilmente sbaglia. E poi il linguaggio della scienza è così crudo. Cinico.
Un organo non è isolato. Non è una macchina. È parte del tutto. Siamo fatti di
rocce. Di alberi. Di mare. Di stelle. Siamo orma del respiro di Dio.
Inizia l’attesa di un figlio. L’abbiamo cercato in ogni sguardo, in ogni
carezza, rovistando dentro di noi. Appassionatamente. Disperatamente.
Inutilmente.
Adottare un bambino. Ho paura. Ho paura di non amarlo come una madre. Ci
rifletto. Ci riflettiamo. No, lo amerò ancora di più. Ha sofferto. La vita lo
ha preso subito a schiaffi. E gli ha presentato il conto prima ancora di
entrarci. Nella vita. Chi soffre è migliore. Impara a conoscere. A conoscere
profondamente. A conoscere se stesso e l’altro. Voglio conoscere l’altro.
Voglio conoscere meglio me stessa. Noi stessi. E decidiamo di adottare un
bambino diverso da noi. Nelle fattezze, nel colore della pelle, uno straniero.
Iniziamo con le carte. Poi i colloqui, la perquisizione delle nostre anime,
delle nostre vite, della nostra casa. Se fai un figlio, nessuno valuta se lo
puoi fare. Nessuno viene a vedere la tua casa. Nessuno chiede se i tuoi
genitori sono d’accordo
Intanto divento madre. Divento madre di mio padre. Un cancro lo sta
consumando. A che serve l’assenso di mio padre che non ci sarà più quando il
bambino arriverà? Per tre anni è lui mio figlio. È lui che sostengo quando
cammina. È lui che aiuto a mangiare. È a lui che accarezzo le lacrime. E scopro
che si può essere madri in tanti modi. Come prendersi cura di un ammalato. È
una prerogativa straordinariamente femminile quella di accompagnare - con il
proprio corpo, con la propria anima - alla vita. Ma anche alla morte.
Un giorno di aprile squilla il telefono. C’è un bambino piccolissimo per
noi. Sapere che è un maschio mi emoziona più di qualsiasi altra cosa. Forse
perché è il primo contatto con lui. La prima cosa che imparo di lui. Forse
perché un uomo mi sta per lasciare, giunto al termine del suo percorso e un
altro, da poco affacciato alla vita, mi sta per raggiungere. Mi sento come se
mi avessero lanciata nello spazio.
È una sensazione potentissima, travolgente. Come quando ci si innamora
perdutamente. Ci mostrano una fotografia minuscola, poco più di un’unghia. È
nostro figlio. Ha sette mesi. Dobbiamo andare in Nepal per una settimana. Poi
tornare in Italia. Senza nostro figlio. E poi ritornare a prenderlo dopo sei
mesi. In teoria. Ma in pratica possono diventare molti di più.
Mi sento improvvisamente madre di un figlio. Lo amo. Mi rendo conto che
l’amore esiste al di là del tempo e dello spazio. Provo un amore immenso per questa
creatura. Ma anche qualche timore. La foto, lì per lì, non mi emoziona molto,
anzi non sono sicura che mi piaccia. Ma poi la prendo in mano di continuo e mi
innamoro anche di quella foto. Mi sembra bellissimo. Sarà per via della
cuffietta, ma a mio marito sembra una lumachina. È la nostra lumachina. Anche
mio padre tiene nel portafoglio una sua fotografia. Inizio a tenere un diario.
Da far leggere un giorno a questa creatura. Per raccontargli l’attesa del
nostro incontro. Le emozioni. Le delusioni. E poi devo scrivere. Come
respirare. Per parlargli. Non è nel mio corpo. È comunque dentro di me.
Fissiamo il volo. E precipitiamo. Poco prima di salire sull’aereo.
Scagliati negli abissi del disincanto. I maoisti sono in rivolta. Le adozioni
sono bloccate. Può essere una settimana o un mese, ci dicono. Temo che possa
passare molto più tempo. Dopo alcuni mesi mio padre si aggrava. Vorrebbe che
restassi ogni giorno e ogni notte accanto a lui. Vorrebbe che lasciassi il
lavoro per stare con lui. Ha paura di morire. Soprattutto di notte. La paura
del buio. Come ogni bambino. Come ogni moribondo. Mi dice che quando avrò il
mio bambino starò a casa dal lavoro. È geloso della lumachina. Sa che prenderà
il suo posto. E per lui non lo faccio. Continuo a lavorare. Mi serve per non
impazzire. Per non pensare. A lui che sta morendo. E a un figlio che non
arriva. Mi sento in colpa. Non so cosa fare. Mi spiegano che i moribondi fanno
leva sui nostri sensi di colpa. Soffoco i sensi di colpa. Anche mio marito ha
bisogno di me. E io di lui.
Ogni giorno sono con mio padre. Tutto il tempo che posso. Mio padre mi
chiede di mio figlio. In fondo è un ponte, questo bimbo. Tra la sua vita ormai
al termine e quella futura che aspettiamo con ansia.
Passa poco più di un anno e in un giorno di aprile mio padre muore. Con la
foto della lumachina nel cuore. Mi convinco che forse adesso nostro figlio
arriverà. Succede sempre che i morti portino figli. Invece che quel bambino non
arriverà più. È cambiata la normativa. Smetto di scrivere il diario. Quel
bambino andrà a qualcun altro. Lui non lo sa. Ci dicono, dobbiamo elaborare il
lutto. Elaboro il lutto di mio padre, elaboriamo il lutto di nostro figlio, mio
marito perde pure suo padre, pochi mesi dopo il mio. E anche lui deve elaborare
il lutto di suo padre. E anche suo padre chiedeva sempre del bambino. Perché
quando sei vicino alla morte, vuoi vedere ci si sarà dopo di te. Chi sarà
l’oggetto delle nostre attenzioni. Chi avrà la scintilla dell’eternità, per te,
in quel momento.
Passano alcuni mesi: il Nepal riapre le
adozioni. Ricominciamo tutto daccapo. Siamo senza un bambino. Si affacciano
tutte le domande. Maschio o femmina? Quanti anni avrà? Sarà sano? Soprattutto:
arriverà? Passano ancora mesi e mesi. Un giorno, camminiamo nei paesaggi del cuore
di mio padre. È settembre. Una nuova telefonata: “C’è un bambino per voi”. È un
maschio. Ha tre anni. Un’emozione travolgente. Mi toglie il respiro. E le
parole. Esisto. E basta. Come il fiume che ci scorre accanto. Come il volo
dell'aquila, sopra di noi. Come le montagne immense, alle nostre spalle. Le
abbiamo attraversate. Stavolta è sicuro. Ne ho la certezza. Non è solo pura
emozione. È molto, molto più profondo. È sentimento. Adesso sono pronta. Il suo
nome entra all’istante nella mia pelle. E non ho paura.
Stavolta scrivo soltanto due pagine di
diario. Per scaramanzia. Ma non basta.
I maoisti sono di nuovo in rivolta. Dejà
vu. Non si sa fra quanto potremo partire. Può essere una settimana o un mese,
ci dicono. Come l’altra volta. Siamo in attesa. Come l’altra volta.
Perdere un genitore è un dolore eterno,
irrimediabile. Entra con la violenza di un macigno nel mare. Poi piano piano si
posa sul fondale. Rimane sempre. Anche se apparentemente è meno evidente. La
superficie della tua anima sembra meno scalfita. Ma quel dolore è lì. E non se
ne va. La vita rincorre la morte in un circolo senza fine. E così l’ombra di un
figlio. Quando appare, ti sconvolge la vita. Poi s’inabissa. Ma il dolore
rimane, di nuovo, adagiato su un fondale. E non puoi fare altro che conviverci.
Se non lo vai a trovare, il macigno resta lì. Immobile. E tu vivi la tua vita.
Lo ignori. O meglio, fai finta. Perché basta un niente, che il macigno
riaffiori. Tu lo spingi di nuovo sotto. A singhiozzi. È la tua unica difesa.
Finché contro quell’ombra splenda finalmente il sole.
I sogni mi hanno spesso svelato la vita. Come
certe parole sbocciate all’improvviso dentro di me. Così, ho ripensato a un
sogno. Di un anno prima. Un sogno tradotto in versi. Il cancro di mio padre era
partito da un rene. E io l’avevo sognato. Quel rene. Apparteneva a un vecchio.
Nero come l’ebano. Mi sorrideva. E soffriva. E io lo tenevo fra le braccia.
Come un bambino. Sapevo che sarebbe morto con il sole alto nel cielo. Me lo
aveva rivelato quel sogno.
Mio padre non aveva la pelle scura. La sua
anima invece per me scura lo era sempre stata, almeno fino a quel momento. Poi,
lentamente, poco alla volta, la sua anima mi si è svelata. Con la malattia.
Eravamo distanti, io e mio padre. Ci separava
un continente di parole mai pronunciate. Di condivisioni mai esistite. Di
emozioni mai respirate. All’unisono, intendo. Eravamo distanti, io e mio
figlio. Ci separava un continente di strade mai calpestate. Di terre mai
sfiorate. Di popoli mai visti. Ci siamo raggiunti. Attraversando il dolore.
Dolore della malattia e paura dell’ignoto. Dolore dell’abbandono e paura
dell’ignoto. Dolore del dolore e paura dell’ignoto. Tutti e tre un dolore
diverso. Tutti e tre la medesima paura. La paura dell’ignoto. Di quello che
sarà. Un grido nel silenzio. E dar voce a un’emozione. E allora voglio
rincorrere le nuvole. Vivere per sognare. Per amare. E quando per me verrà la
sera vivrò per ricordare i miei sogni. E per non smettere di amare mai. Un
giorno poi sarò di nuovo polvere. Resterà soltanto l’amore che avrò dato. In
nome dell’amore, le coordinate del tempo e dello spazio si sono annullate. Ci
siamo trovati. Ci siamo ritrovati. Nell’amore.
E quante volte ho sognato di tenere un bimbo
tra le braccia. Tutte le volte, la stessa sensazione, forte, intensa, magica. E
mi dicevo: avere un figlio vorrà dire provare quella sensazione. Di eterno.
L’eternità è la dimensione dell’amore. L’amore palpita al di fuori del tempo e
dello spazio. Respira l’infinito.
Mio figlio ha la pelle scura. Nel sogno, la
sua ombra. Avevo un figlio tra le braccia. Ero madre. Non lo sapevo ancora che
lui sarebbe arrivato. Mi sorrideva. E soffriva. E io lo tenevo fra le braccia.
Era mio padre. Con la sua anima scura. Era anche mio figlio. Con la sua pelle
scura.
Un aprile mio padre mi ha lasciato. “Un
aprile morirò con la luce. Sugli estatici colli / Torneranno a fiorire le rose”.
Le
sue parole di cinquant’anni prima. Rimaste mute da allora. Sopite. Presagi.
Un aprile ho incontrato mio figlio. Lo amavo
da diverso tempo. L’ho amato fin dal primo momento. Quando ci avevano detto che
c’era un bambino per noi. Non sapevo ancora il suo nome. Ma già lo amavo. Due
giorni dopo averlo incontrato, ero formalmente sua madre. Lo sono diventata
nell’ufficio di un ministero in Nepal. Lui accompagnato da un uomo e da una
donna. Un timbro, una firma e lui era nostro figlio. Sulla carta. Ma quando la
donna se n’è andata, mio figlio era disperato. Lei ha camminato diritta fino
all’uscita. Senza mai voltarsi. Nonostante il pianto disperato di mio figlio.
Le correva dietro. La nostra prima esperienza da genitori. Battesimo di fuoco.
L’uomo ci aveva detto: “Due giorni e si calmerà”. Dopo due giorni ha smesso di
piangere. Di gridare che voleva andare via. Ma il dolore rimane, di nuovo,
adagiato su un fondale. E non puoi fare altro che conviverci. Se non lo vai a
trovare, il macigno resta lì. Immobile. E tu vivi la tua vita. Lo ignori. O
meglio, fai finta. Perché basta un niente, che il macigno riaffiori. Tu lo
spingi di nuovo sotto. A singhiozzi. È la tua unica difesa. Passavamo le ore a
guardare i pesciolini. In un piccolo stagno limaccioso. Popolato anche da rane,
topi e libellule. Così è la vita. Non solo colori, non solo leggerezza. Ma
anche fango. Io mi sentivo nel fango. Per lui esisteva solo suo padre, mio
marito. Le madri lo avevano già tradito troppe volte.
Affogavo nell’attesa. Conquistare la sua
fiducia. Mio figlio. Di notte dormiva stretto a me. Ma di giorno mi ignorava.
Incarnavo tutte le sue madri. I suoi abbandoni. Mi sono mancate le parole.
Ancora una volta.
Attraverso di lui, la maternità. Estasi e
tormento. Riprendi in mano te stessa. Completamente. E diventi una persona
assolutamente nuova. Fortissima. E fragilissima.
Mio figlio non aveva mai tenuto una matita in
mano. Davanti a grandi fogli bianchi, disegnava un minuscolo tratto. Come se
gli mancasse la percezione di se stesso. Dei colori. Però conosceva la rabbia.
Batteva i suoi piccoli pugni. Gridava. Non riuscivo a incontrare il suo
sguardo. Nei momenti di rabbia. Non mi vedeva. Esisteva così. Furioso contro la
vita. Incontenibile. Mi sentivo impotente davanti al suo dolore. Come mi
sentivo impotente davanti al dolore di mio padre. Asciugavo le lacrime. Come
ogni madre. Carezzavo i capelli. Ti voglio bene. Una lotta furibonda avverso il
buio. E mio padre e mio figlio soccombevano stremati a un sonno profondo.
Nessuno me l’aveva spiegata. La maternità.
Quella profonda. Viscerale. La sentivo con l’impetuosità del magma che trabocca
da un vulcano. Ma non le sapevo dare un nome. Mio figlio. Ero felice. Ma non
ero serena. Non sapevo più chi ero. Dolevano i suoi passi sul mio cuore. E
cercavo una luce. A svelare il buio e la nebbia. Ma bruciavano ancora troppo di
sale i miei occhi. I buoni consigli. Ha caldo. Ha freddo. Ha fame. Io sono sua
madre. L’unica che gli è rimasta. Forse posso capire io se ha caldo. Se ha
freddo. Se ha fame. Non tutte le altre madri del mondo. Devi essere una madre
perfetta. Te lo fanno capire le altre madri. La smania di insegnare. Lì dove
loro avevano sbagliato. Lì, però hanno taciuto. Io non sono perfetta. E imparo
a essere serena. E iniziamo un gioco. Me lo chiede mio figlio. Facciamo finta
che nasco dalla tua pancia. Si nasconde sotto una coperta. E poi sguscia fuori.
Ed è un bimbo piccolo. Chiede di essere protetto. Dal fratello dispettoso che
lo aspetta fuori. Dall’ombra di se stesso. E io lo proteggo. Lo cullo. E così,
siamo nati. Il bambino e la sua mamma. Un amore infinito. Fuori dal tempo e
dallo spazio. Come solo una madre può concepire.
La magia dell’alba. La luce. Il sole. Mio
padre. Mio figlio. Il tempo. Lo spazio. La pianta, un tempo morente, di mio
padre è più rigogliosa che mai. Mio figlio teme il buio e si stringe a me.
Posso dormire sulla tua pancia. Ti amo, mamma. Da grande, ti voglio sposare. Di
giorno ride gioioso. In sincronia con il tempo e lo spazio. A catturare attimi
di infinito. A ritrovare chi abbiamo perduto, in un fiore. In una farfalla. In
una creatura vivente. In connessione. Riesco a sentirmi viva solo così. In
sintonia con il respiro dell’universo.
Mio figlio ci ha scrutati a lungo. Ha
imparato a fidarsi di noi poco alla volta. Abbiamo costruito insieme il nostro
presente. E adesso, quando mi corre incontro all'uscita della scuola, gridando
felice "mamma!" e mi travolge come un tornado, so che per lui sono
sua madre. Non tutte le madri del mondo. Sono la sua unica madre. Del mio unico
figlio. E non di tutti i figli del mondo.
Che donna meravigliosa sei, Valeria!
RispondiEliminaGrazie Paola, sei un tesoro
EliminaE' UN RACCONTO STUPENDO, ANCHE IO SONO UNA MADRE ADOTTIVA, E LEGGENDO LE TUE SENSAZIONI SONO TORNATA INDIETRO DI TRE ANNI; QUANTI DUBBI, QUANTE INCERTEZZE, MA POI SVANITE QUANDO HO ABBRACIATO MIA FIGLIA DI 10 MESI, SOLO ALLORA HO RAGGIUNTO LA FELICITA' E LA SERENITA' CHE AVEVO PERSO.
RispondiEliminaTI AUGURO DI CONTINUARE IL BELLISSIMO CAMMINO CHE CI ACCOMUNA.
Grazie per le tue parole e tanti auguri anche a te per questa meravigliosa esperienza
EliminaCon quali parole, con quale commozione, si può commentare un testo tanto vero e intenso, tanto nobile ed elevato?
RispondiEliminaLe suggestioni ed emozioni provocate dalla narrazione, resa con stile ineccepibile, confermano che è nata una scrittrice.
Dal dolore si nasce, con dolore si lascia la vita e la penna intrisa nell'inchiostro del dolore è quella che fa vibrare il cuore. Complimenti e auguri di una vita meravigliosa!
RispondiEliminaCommovente. Senza retorica, verità e sentimento. Complimenti
RispondiElimina