venerdì 16 novembre 2012

Gli angeli del fango contro l'alluvione in Toscana





(ap) Li avevano chiamati così, “angeli del fango”. Erano quelle persone, soprattutto giovani, provenienti da tutto il mondo che accorsero a Firenze dopo l’alluvione del 4 novembre 1966 per salvare opere d’arte, statue, manufatti, insomma un patrimonio storico dell’umanità a rischio di distruzione, ma anche per aiutare tanta gente trovatasi improvvisamente senza casa, o addirittura in pericolo di vita, di fronte alla furia  della natura incontrollata.




Erano volontari, uomini e donne, non solo giovani, che, per qualche tempo, lasciarono le aule di scuola, si assentarono dai posti di lavoro, si separarono dalle loro famiglie, mossi soltanto dal senso di solidarietà, dalla percezione di una sorte comune di fronte a certi accadimenti. Guardiamo con stupore come quell’esempio di mobilitazione spontanea torni a rinnovarsi, in modi e tempi diversi, ogni qual volta la natura sembra flagellare ingiustamente il territorio e le persone.

Può trattarsi del terremoto del 2009 a L’Aquila, dell’alluvione del 2011 a Genova, ora della tracimazione dei fiumi in tante parti della Toscana. Le onde fanno paura, il fango invade le case, alcune vite vengono portate via improvvisamente, travolte e disperse da eventi che non solo la forza imprevedibile della natura ma l’incuria, la disattenzione, l’imprudenza degli uomini hanno reso così pericolosi e dannosi.


Più avvezzi a digitare sulle tastiere del computer o sullo schermo dell’IPhone, ora quelle persone hanno preso ad affondare ruvide pale nel fango e a passarsi secchi pieni di melma, per liberare le case e le persone, per far rinascere la vita al più presto. Appena il tempo di procurarsi delle felpe impermeabili e dei ruvidi stivaloni di gomma ed erano sul posto, pronti a maneggiare magari per la prima volta gradi pale.


Le cronache hanno raccontato che Antonio, solo precario del 118, si è trovato nelle case invase dal fango a fare manovre terapeutiche da codice rosso. Giacomo, studente di ingegneria, è partito da casa alle prime notizie del disastro perché, così ha detto, se fosse stato lui vittima dell’alluvione avrebbe avuto piacere che qualcuno si fosse mosso ad aiutarlo.  Chiara, che studia per diventare estetista, il giorno del suo 23 compleanno era lì a festeggiarlo, si fa per dire, spalando di buona lena perché era contenta di dare una mano.


Così ragazzi e ragazze hanno lavorato spesso sino all’imbrunire, insieme a madri e padri, pronti a ricominciare il giorno dopo, per poi andare via quando il pericolo più grosso era superato. Colpiti a volte ingiustamente da critiche impietose circa la loro capacità di impegnarsi per l’avvenire, essi in realtà portano soltanto sulle spalle l’eredità dei sacrifici che le generazioni precedenti hanno loro lasciato con troppa incoscienza.

Sanno reagire invece con esempi di mobilitazione spontanea senza parole d’ordine via internet, senza esibizionismo, naturalmente senza violenza, solo con la modestia e il silenzio, determinati fortemente dall’entusiasmo individuale, dalla coscienza civile, dal senso di solidarietà verso i più deboli e verso chi attraversa improvvise avversità. Nonostante la fatica, con un sorriso sulle labbra.


Essi non hanno bisogno di fare tesoro del monito rivolto agli americani da John F. Kennedy il 20/1/61 al momento della sua elezione a presidente degli Stati Uniti (“Non chiedetevi che cosa un paese può fare per voi, ma che cosa voi potete fare per il vostro paese”). L’esempio dato dagli angeli del fango contiene già quella risposta di speranza e di solidarietà che ognuno di noi cerca affannosamente di fronte alle avversità della vita.


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