(ap) Cambiano le regole sulla responsabilità civile
dei magistrati, la velocità del decidere ha fatto aggio sulla riflessione.
“Un passaggio storico”, è stato
annunciato trionfalmente. Forse, la storia si nutre d’altro. Finalmente, “la giustizia sarà meno ingiusta e i
cittadini saranno più tutelati", è stato proclamato.
Concetti
di alto rilievo, che meritavano una diversa attenzione e soprattutto
un’applicazione rivolta ai nodi veri del sistema giustizia, quelli che la
bloccano, che la fanno arrancare, e indietreggiare, e che la trasformano nel
suo contrario, la malagiustizia.
Intanto,
tra le conquiste spicca – nella sua singolarità – l’introduzione della nuova
causa di responsabilità per danni, costituita dal “travisamento del fatto e
della prova”. Una formula ambigua e pericolosa che si sporge, in modo
devastante e minaccioso, su un crinale difficile e discutibile, di dubbia
costituzionalità, quello che del sindacato – si badi bene, al di fuori dei legittimi meccanismi di controllo
processuali – sull’interpretazione della legge. Che spetta al giudice.
Nulla
accade senza che abbia un valore simbolico e una ricaduta sul sistema. In
questo caso, la forza del pregiudizio ha trasformato il tema sacrosanto della
responsabilità in altro da sé, identificando in questo tema la radice e la
causa di un disservizio, che è sotto gli occhi di tutti, e le cui cause sono
tanto radicate nel tempo quanto diffuse nella loro stratificazione sociale.
Le parole altisonanti tuttavia non possono riempire il
vuoto lasciato dall’assenza di riforme efficaci: le regole del processo e delle
impugnazioni, la disciplina della prescrizione, le disfunzioni organizzative,
la mancanza di risorse umane e materiali, il difetto di innovazione, il trascurato
ripensamento della funzione della sanzione penale.
Nemmeno per ultimo arriva il pensiero di salvaguardare
una casta o la preoccupazione
inconfessabile di giustificare l’errore intollerabile, tanto più se
doloso o gravemente colposo, come è giusto che sia in uno Stato ancora di
diritto. Né la pavidità, di fronte ad una simile forte sollecitazione, può
spingere a preferire soluzioni
meno rischiose, come l’interpretazione conformista della legge, le scelte operative
comode, una giurisprudenza cautamente difensiva.
Piuttosto, se l’indifferenza per la funzione della
giustizia faceva intravedere a Salvatore Satta, già nel 1948, una “condizione
malinconica del magistrato del nostro tempo”, sono talvolta proprio i passaggi
storici decantati che rendono problematico l’assolvimento del compito indicato,
l’altro giorno, dal presidente della Repubblica ai nuovi magistrati: “l’ordinamento esige che il
magistrato sappia collegare equità e imparzialità, fornendo una risposta di
giustizia tempestiva per essere efficace, assicurando effettività e qualità
della giurisdizione”. Chi mette il
magistrato in condizione di farlo?
Non
è proprio difficile individuarne le ragioni, anche attuali. Può bastare
sfogliare un vecchio libro, “L’elogio dei giudici”, sul quale tutti ci siamo
formati, il testo più saggio e illuminante, non a caso scritto da un avvocato,
Piero Calamandrei, membro della
Costituente, partigiano, che ammoniva: “Il pericolo maggiore che, in una democrazia, minaccia i giudici è
quello dell’assuefazione, dell’indifferenza burocratica, dell’irresponsabilità
anonima”.
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