(con un commento di Angelo Perrone)
Già hanno avuto inizio le celebrazioni per i tre secoli della nascita di Kant e dureranno fino al 2024. Ne ho colto il senso e l’importanza per esperienza diretta. Percorrendo la via dei filosofi, a Kaliningrand – Königsberg, mi sono recato subito a visitare la tomba di Kant: profondo lo stupore di trovare così tanti giovani a rinverdire la memoria del padre di una radicale reinterpretazione del cielo, dell’apparenza, dell’ignoranza e del male; del sapiente difensore di un mondo riportato alla luce da valori perenni, come può essere perenne la ragione umana o la riflessione scaldata da sentimenti condivisi.
Era un mattino primaverile e il sole già intiepidiva il muro della cattedrale gotica presso cui era posta la tomba. Il gioco delle guglie, dei pinnacoli, lo scintillio delle vetrate, attiravano e allontanavano lo sguardo producendo un turbamento strano, come presagio della caducità di tutte le cose. Mi tornava in mente un passo della Teoria del cielo ove Kant commentava: «Tutto ciò che è perfetto, tutto ciò che ha un moto e un’origine porta con sé l’impronta del limite imposto alla sua natura: quindi deve finire, deve morire… La fragilità è, purtroppo, innato retaggio delle nature finite e lavora senza posa per la loro distruzione.» (I. Kant, Storia generale della Natura e teoria del cielo, Casa Editrice O.Barjes-Roma,1956).
Eppure, tutti quei giovani, forse studenti liceali in visita di studio, non apparivano di certo fragili ma pieni di entusiasmo, liberi di cantare, di suonare chitarre e flauti, e quindi piuttosto in linea con l’idea di felicità da Kant predicata: «Felicità è l’appagamento di tutte le nostre inclinazioni sia estensive, riguardo la loro molteplicità, sia intensive, rispetto al grado, sia anche protensive, rispetto alla durata..» (I. Kant, Critica della Ragion pura, ed. 1976). In coerenza con il senso dell’esistere, dedotto da Kant, facile è riguadagnare la gratitudine verso le sorti della vita che insieme alla morte non esclude la speranza, la tensione al superamento di sofferenze e dolori, al cambiamento, alla riscoperta del mondo; e giusto e degno è dunque celebrarlo senza posa e senza fine.
(ap)
Cosa resta di Immanuel Kant a 300 anni dalla nascita? Fu durante una delle sue
consuete passeggiate per le vie di Königsberg che gli venne in mente il progetto del suo
capolavoro, la “Critica della ragion pura”, cui si dedicò poi per anni, lui
uomo schivo e austero, con una scrittura costante ed ossessiva. Fu una
rivoluzione non solo per la filosofia, ma per la storia del pensiero,
contrassegnò un’epoca, segnò uno spartiacque insuperato nella storia delle
idee. Un processo alla ragione, quando decide di abbandonare la lezione
dell’esperienza per avventurarsi sugli impervi e forse sterili sentieri della
metafisica tradizionale, e quando non ammette i suoi limiti. Una evoluzione,
quella suggerita da Kant, destinata però a salvare la ragione dai suoi confini,
per darle un futuro, l’unico possibile, quello nella storia, esposta
all’errore, chiamata ad una perenne erranza, e perciò in grado di ispirare
tuttora la modernità. E di scoprire in fondo la sua stessa vocazione morale. Che
sa guidare l’agire di ciascuno, richiamandosi all’imperativo categorico di
considerare l’uomo sempre come un fine e non come uno strumento.
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