Separazione delle carriere dei magistrati e obbligatorietà dell’azione penale: discrimine di libertà ed uguaglianza
(Angelo Perrone) Trentacinque minuti. È il tempo dedicato dal ministro della Giustizia Nordio al congresso nazionale dei magistrati a Palermo.
Di corsa, tra un impegno e l’altro, tutti più pressanti ed urgenti. Lo spazio per arrivare, fare foto di rito, dire due cose, e ripartire nel gelo della platea stupita.
Ha menzionate cose non proprio di piccolo conto: la modifica della Costituzione con la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, sullo sfondo l’idea di ripensare l’obbligatorietà dell’azione penale.
Il tratto da rimarcare però non è solo l’intento radicale di cambiare la Costituzione: già enunciato in passato, peraltro di sguincio. Nemmeno solo il gelo dell’uditorio, a sentirsi ripetere il proposito che evoca ombre minacciose. Silvio Berlusconi la qualificava come “riforma-simbolo” della giustizia, adottata (non è vero) “in tutti i paesi civili”. Quel punto era anche il perno del programma eversivo di Licio Gelli.
Più che la scarsezza del tempo e la frettolosità, conta il modo della presenza. Colpisce il rifiuto di interlocuzione, nessuno ascolto degli interventi, nessuna partecipazione ai lavori. Sarebbero state forme doverose che infatti il presidente della Repubblica Mattarella non ha mancato, con altro stile, di manifestare.
Quei trentacinque minuti sono il simbolo della postura che informa i comportamenti del ministro e soprattutto la sua visione delle cose. L’atteggiamento riverso sui propri intenti ha l’esito della refrattarietà al confronto, della diffidenza, del ripiegamento sulle proprie credenze.
Ma soprattutto tutto ciò è generativo di distorsioni nella interpretazione della realtà e nell’impostazione dei problemi. Dopo l’insediamento, a scegliere i campi di intervento c’era solo da scegliere e da rimanerne senza fiato: attuazione della riforma Cartabia (la digitalizzazione dei processi, giustizia riparativa, messa alla prova), sovraffollamento delle carceri, umanizzazione delle pene, mancanza cronica di personale amministrativo e giudiziario.
Invece l’abolizione dell’abuso d’ufficio (che legittima condotte come il favorire o danneggiare qualcuno intenzionalmente per il proprio interesse); la stretta sulla diffusione di notizie processuali derivanti da intercettazioni e misure cautelari (“bavaglio alla stampa”).
L’esito eclatante di questa postura isolata dalle riflessioni di dottrina, giurisprudenza e pubblica opinione, è ora costituito dall’idea di cambiare la collocazione istituzionale della magistratura. È la modifica di un punto centrale, l’indipendenza dei magistrati nell’esercizio delle funzioni.
Il mondo politico prescinde da approfondimenti, rifiuta il confronto con altre voci e non elabora nemmeno proprie motivazioni di peso. Mira diritto al risultato politico: questo stravolgerebbe gli equilibri istituzionali e sarebbe l’anticamera della sottomissione della giustizia al governo, di qualunque colore.
L’altezzosità del ministro a Palermo suona come indifferenza verso le ragioni del confronto e le esigenze della discussione, evidenzia il rifiuto di misurarsi con le obiezioni della cultura e della società civile. In gioco qui sono, con l’indipendenza della magistratura e l’obbligatorietà dell’azione penale, due presidi di libertà e uguaglianza nello Stato democratico liberale.
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