Racconto
di Paolo Brondi
In
quel pomeriggio, mentre la pioggia si trasformava in candidi fiocchi di neve,
Giulio Belli, criminologo e investigatore, stava riponendo su una scodellina di
latta tantissime briciole di pane per poi installarla tra i rami del pesco che
giungevano fino all’altezza della finestra del suo studio.
Sugli stessi, ogni
giorno, si posavano passerotti, pettirossi, merli, cinciallegre, fringuelli, e
il loro cinguettio risuonava nell’animo di Giulio come un'invocazione a non
abbandonarli al destino del freddo, o della voracità dei gatti del quartiere,
se le briciole fossero state sparse solo nell’erba del giardino.
Li
osservava, non visto, attraverso la finestra a tende semitrasparenti, e gioiva
del loro corale e canterino banchettare. Ad interrompere questo piacere, ecco
un ripetuto ed aggressivo trillo di campanello telefonico, stonato ed
inopportuno.
Sollevò
la cornetta e sentì gridare “Dottor Belli, mi ascolti, c’è il demonio qui con
me … sono in pericolo. . ho bisogno del suo aiuto!”. Riconobbe la voce, anche
se affannata e quasi balbettante e non uso a negarsi, rispose che sì, lo
avrebbe soccorso! Si trattava di Fra Marino della vicina Chiesa dei Cappuccini.
Era un frate di età ancora giovane, caro a tutti per genuina bontà e profonda
religiosità. Messa giù la cornetta, studiava come e quando lo avrebbe
raggiunto, pensando all’assurdità di una richiesta che nel demonio identificava
il pericolo.
Temeva
che nella quotidianità del frate potesse rinnovarsi il sapore antico dei
pregiudizi, delle stregonerie, delle pratiche divinatorie o la paura dei geni,
dei diavoli. Oppure, era l’appello di un uomo in crisi: crisi di fede,
infelice, tormentato. Il demone che turba un frate così buono- rifletteva-
forse è la sindrome della melanconia, ingenerata dalle votate solitudini della
vita monastica.
Queste
meditazioni fecero scivolare via il tempo e quando decise di uscire per recarsi
all'abitazione del frate era passata più di un’ora dall'invocazione. Una
leggera patina di neve copriva la strada e l’imbrunire lo chiazzava di ombre,
rendendo i passi di Giulio più lenti e cauti per non scivolare. Quando fu
prossimo alla meta, intravide una strana figura uscire veloce dal portone
dell'abitazione del frate: tutto avvolto in un mantello nero, con il viso
coperto da una pesante sciarpa e cappello calato fin quasi agli occhi, era
figura irriconoscibile e rapidamente si eclissò. Affrettò il passo. Dentro di
sé sentiva un’inquietudine oscura, un sordo rimorso, per aver fatto passare
forse troppo tempo. Salì le scale della canonica e giunto alla porta
dell’appartamento del frate, la trovò aperta. Entrò e si trovò di fronte la
stanza adibita a cucina: sul tavolo una bottiglia di vino rosso, consumato per
metà, due bicchieri, evidentemente usati; quattro sedie impagliate,
diligentemente poste ai quattro lati del tavolo; una poltroncina orientata
verso il televisore; una credenza sul cui piano erano allineati alcuni vassoi,
del pane, della frutta, dei formaggi; il crocefisso e il quadro di s. Antonio
alla parete di fronte alla finestra.
Tutto
era in ordine, forse eccessivo. Osservando più attentamente, scoprì che il
pavimento era stato pulito da non molto e s'insospettì. Si chinò per
ispezionare ogni angolo, ma non trovò nulla. Stava per sollevarsi da quella
posizione, quando l’occhio fu attratto da un puntolino nascosto dall’ombra del
battente della porta d’ingresso: lo raggiunse con la punta del dito indice e
per il colore e la viscosità gli fu subito chiaro che si trattava di una
traccia di sangue. Passò dalla cucina alla stanza da letto, seguendo l’odore e
la lucentezza del pavimento parimenti pulito.
Anche
nella stanza il pavimento era lucente e ancora l’occhio del criminologo cadde
su una macchiolina in prossimità della base dell’armadio. Non ebbe più
esitazioni: aprì i due battenti! Gli apparve un corpo rannicchiato nel vano
interno, con addosso il saio marrone, il cappuccio calato su quasi tutto il
viso e con il cordone che usciva teso in direzione del collo ed annodato in
alto al bastone orizzontale dell’armadio.“Mio Dio, si è impiccato!” Esclamò,
facendo un balzo indietro ! “Ma no! – subito si disse - le tracce del sangue e
la pulizia del pavimento che segni sono se non quelli del trascinamento di un
corpo ferito e molto probabilmente già morto? E l‘assassino si è poi messo ad
inscenare l’impiccagione!”.
Stava
già proponendosi di telefonare con il cellulare al comando della polizia e dei
carabinieri di zona, quando il suo occhio fu attirato dal colore del viso non
del tutto coperto dal cappuccio: era un colore improbabile, così roseo e
lucente, per un cadavere! Sollevò il cappuccio e la sua sorpresa non fu meno
traumatica della prima: gli apparvero le sembianze del frate ma quel corpo non
era altro che un manichino! Una simulazione caricaturale non di un corpo che
nella morte conserva tutto intero il senso della fine del vivere, ma di un
feticcio del corpo. La scena appariva doppia al criminologo: da un lato, la
prova dell'arte, del lavoro, del gioco, dell’ideazione, dell’intenzionalità, a
livello del costruttore del manichino; dall’altro l’emozione evocata dal
vestimento del manichino, con saio, cappuccio, e cordone.
In
entrambi i casi, la disparità dei linguaggi, quello dell’opera e quello del
vestimento, suggeriva al criminologo una pluralità d'ipotesi: era stato lo
stesso frate a progettare quel particolare spettacolo? E se sì, le tracce, pur
minime, di sangue, di quale ferita erano il segno? Il frate era stato rapito,
forse ucciso, trasportato altrove e l’omicida aveva creato quel diversivo? Ma,
in questo caso, c’era premeditazione: il manichino doveva essere stato creato
da tempo e come avrebbe potuto ricreare le sembianze del frate se non in
costante presenza del medesimo! Occorreva soffermarsi sul linguaggio che poteva
parlare pienamente un’altra lingua: non il manichino, ma la veste, che Giulio
osservò più da vicino, un poco sdrucita e qua e là scolorita, poteva parlare
del frate, della sua semplicità, della sua povertà. Quello era proprio il saio,
il cappuccio, abitualmente indossato dal frate! Ed il cordone, non più ai
fianchi, ma elevato a cappio, vanificato il simbolo originario, ne denotava
l’opposto: l’annullamento della vocazione e del ruolo di frate cappuccino!
Lo
riscosse da queste meditazioni il forte suono delle campane dell’Ave Maria.
Abbandonò la scena e, come se orientato da una forza sconosciuta, si recò in
Chiesa. Stava officiando il padre cappuccino Superiore e assistevano compunti
numerosi fedeli. Si sedette a lato in una panca di mezzo e nei pressi di uno
dei confessionali. Il frate intonò il canto del Salve Regina e crebbe la
solennità dell’ora. Tutti si alzarono in piedi mormorando i versi ed anche
Giulio cercava nella memoria le parole dell’inno che pure lui cantava in coro
nella chiesa della sua prima adolescenza. D’improvviso, una nota stonata, un
gemito.. Si guardò intorno.. tese l’orecchio ..il lamento proveniva dal vicino
confessionale..
Senza
farsene accorgere, si avvicinò alla tenda dell’entrata, la scostò un poco e con
un sussulto vide frate Marino legato alla sedia, con il petto nudo e colmo di
sangue che fluiva da una profonda ferita all’altezza del cuore… farfugliava,
ormai morente, parole che Giulio cercò di comprendere: “demonio..”, “sempre…la
donna.. lei Elvir…”, “agend..scrivani..i..a” e poi il silenzio. Giulio restò
per un attimo a guardare la figura di fra Marino e lo prese un senso di pietà
per quel leale servitore di Cristo e per una fine che ne rinnovava la sorte.
Richiuse la tenda, uscì all’aperto e telefonò alle autorità. Il commissario,
dottor Gino Renzi; il maresciallo, il procuratore, e tutti i funzionari
giudiziari, esperti nel rilievo d'impronte digitali e fisico-chimiche, giunsero
sul posto entro una mezzora. Al dottor Belli fu richiesto di presentarsi in
procura, alle ore 9.00 del giorno dopo per ricevere ufficialmente l’incarico di
indagare sulla morte del frate.
La
notizia della morte di Fra Marino sollevò voci, di dolore e di biasimo, in ogni
spazio del paese e si arricchì delle più varie interpretazioni. I politici
lamentavano la mancanza di sicurezza nel territorio e l’indifferenza della
gente che aveva lasciato solo fra Marino. Il medico condotto, Luigi Masi,
raccontava che il frate, suo paziente, era sostanzialmente sano, ma talvolta
soffriva di depressione: “Certi giorni –diceva- mi pareva ossessionato.
Ripeteva di continuo che il nostro tempo era dominato dal male, dal demonio.
che era tornato fra noi. I fedeli piangevano la perdita della sua parola: “non
erano prediche le sue, ma verità- diceva la maestra Luigina- Vi ricordate
quante parabole ci leggeva per farci capire i mali del tempo e guidarci a
redimerli.
Il
Belli seppe di queste voci e di tante altre, ma le sue informazioni poggiavano
su ben altri linguaggi. In primis, il risultato dell'autopsia: il frate era
stato prima reso incosciente, mediante cloroformio, poi pugnalato all’altezza
del cuore. Ma il pugnale, probabilmente impugnato da una mano femminile, non
aveva avuto la spinta necessaria per raggiungere il cuore: era stata recisa
un’arteria e la causa della sua morte era stata, dunque, il dissanguamento. La
lettura della diagnosi gettò il criminologo nello sconforto.
Per
la prima volta si sentiva uno sconfitto; non aveva portato l’aiuto che il frate
chiedeva nel tempo dovuto! Avrebbe potuto salvarlo…Ma da chi ? Dal demonio? Da
una donna di nome Elvira? Era seduto alla scrivania, si alzò, si avvicinò alla
finestra: vide i pini coperti di neve e il grigio sempre più intenso del cielo.
La scena, inconsueta per un ambiente da clima marino, lo riscosse. Doveva
sciogliere le ombre e seguire la traccia più credibile. Decise di chiedere
aiuto al maresciallo per rientrare nell’appartamento del frate: si ricordava
delle ultime parole del frate e aveva in mente di cercare l’agenda e di far
luce sul nome Elvira. In quel momento il silenzio fu rotto dalla suoneria del
suo cellulare: “Dottor Belli, sono il maresciallo... ho rintracciato la signora
Elvira ed è qui, in ufficio. Venga subito, Procederemo insieme al suo
interrogatorio.".
Quando Giulio giunse presso l'ufficio del maresciallo,
le luci della sera, ormai tutte accese, scivolavano sul bianco della neve
producendo strani ricami. La donna sedeva compostamente sulla poltroncina
messale a disposizione dal Maresciallo e appariva assai disinvolta, bella, slanciata
e giovane e, all'arrivo del criminologo, lo salutò sorridendo e con malizia
negli occhi. Le fu chiesto quando avesse visto per l'ultima volta fra Marino e
in che rapporti fosse con lui. Rispose "Ci siamo incontrati la mattina
dello stesso giorno in cui è accaduto la disgrazia. Sono laureata in lettere
classiche e da qualche tempo lo aiutavo a tradurre testi dei Padri della
Chiesa. Gli servivano perché stava completando la stesura di un suo
libro".
"Chi altri, oltre a Lei -chiese Belli- conosceva le
finalità di questo libro?" "Era noto a tutti -rispose Elvira- fra
Marino non mancava di parlarne nelle sue prediche, durante la Messa e spesso
assumeva toni assai furenti, contro i testimoni di Geova, la massoneria, i
satanisti, visti, nell'insieme, come un virus assai potente per allargare i
confini della credulità, della superstizione, dell'ignoranza". "Si
era fatto, dunque, tanti nemici- intervenne il maresciallo- e lei ci può dire
se padre Marino ne fosse venuto a conoscenza? " " Io so che ha
ricevuto molte minacce per lettera e attraverso telefonate, soprattutto dai
testimoni di Geova e dai satanisti, ma non se ne curava e anzi intensificava la
sua lotta". "Ma, padre Marino -disse Giulio - era amato e ammirato da
tutti i suoi fedeli, quindi non aveva solo nemici, ma forse più amici".
"E' vero -rispose Elvira- sapeste quante signore e signorine venivano a
trovarlo, portando torte, pasticcini e anche maglie e magliette! Non era solo
ammirato ma corteggiato e amato. Lui accettava i doni per poi donarli ai suoi
poveri e trattava le sue conoscenti come sorelle.
Fra le varie spasimanti ce n'era una però, la Francesca,
tutte moine, cambiava voce quando gli si accostava trovando toni morbidi e
suadenti.. Fra Marino qua .. fra Marino là.. lo esasperava, lo infastidiva, ma
non cessava di circuirlo..." "Chi è questa Francesca?- chiese Giulio
- " E' un'insegnante di scuola media, insegna religione e questa è la
giustificazione ufficiale per i suoi frequenti incontri con fra Marino..!
"Vuol forse dire che fra Marino incontrava Francesca privatamente e fra
loro era nata una storia?" " Non voglio dire niente di questo- replicò stizzita Elvira-, ma ascolti
quello che si dice in giro! Non sono poche le voci che già sospettano di una
storia finita male...!"
Mentre Elvira parlava, Belli socchiuse gli occhi e
rivide fra Marino sul pulpito. Gli parve di risentire quel fremito, quel
risveglio di ciò che è addormentato nell'interno di noi, ciò che è avvolto dal
fumo della distrazione. Comprendeva che il millenarismo, le varie forme di
apocalittica, erano la risposta ai tempi di crisi, al crollo delle ideologie,
alla perdita di fiducia nel progresso della storia, alla perdita della
speranza, ma dubitava che questa coscienza fosse alla base del delitto
perpetrato sul frate. Piuttosto, si scoprì sospettoso verso il racconto di
Elvira: la sua testimonianza gli pareva troppo precisa, troppo circostanziata,
come se fosse stata preparata anzitempo. Decise che avrebbe studiato più a
fondo sulla personalità della donna e che avrebbe curato di rintracciare
Francesca, mentre il maresciallo, congedato la testimone, si propose di
indagare sulla presenza dei millenaristi nel territorio. Presero poi a
esaminare i reperti trovati nell'abitazione di Marino.
Elvira, uscita dalla caserma, si avviò, con passo
nervoso e mente in fuoco, incurante della neve che ora scendeva a larghi
fiocchi, verso la sua macchina, posteggiata vicino alla Chiesa. Si sentiva
addosso la diffidenza del criminologo. L'aveva avvertita a pelle e poi le era
entrata dentro, nell'intimo, fino a renderla furiosa con se stessa e piena di
conflitti. Entrò in macchina sbattendo violentemente la portiera e fu presa dal
panico. "Perché non aveva detto tutto? Perché parlare della sua più intima
amica, Francesca, in quel modo? Meglio fuggire o confessare subito? Ma
confessare che cosa? Che si era innamorata di Marino e lui di lei! "
Le lacrime presero a scendere e rivide tutta la scena.
Era stato lungo e faticoso il travaglio di Fra Marino. La sua vocazione e la
promessa fatta a Dio parevano incrollabili e spesso la chiamava
"demonio", sentendo crescere la sensibilità verso la sua femminilità
e invano lottando contro il desiderio di lei. Così, quando affrontarono la
ricerca e la lettura dell'epistolario fra Abelardo ed Eloisa, la commozione
crebbe e come rinnovati Paolo e Francesca, si scambiarono il primo bacio. Tutto
precipitò. Fecero l'amore. E da quel giorno Marino conobbe la sua virilità e fu
più uomo che frate. Insieme costruirono il manichino con sembianze di frate e
per gioco o per futura metafora lo impiccarono.
Marino aveva deciso che si sarebbe tolta la veste.
avrebbe scritto e chiesto le sue dimissioni dall'esercizio sacerdotale e che
sarebbe fuggito con lei.. Ogni giorno insisteva di più e la cercava, le
telefonava anche di notte. L'euforia di Marino, la sua ossessione la spaventò.
Lei preferiva prendere tempo. Voleva che formalmente giungesse a rinunziare
alla veste e alla funzione, per poi potersi sposare con lei. E fu per questa
ripetuta discussione che quel giorno degenerò in tragedia. Marino era
disperato, tornava a chiamarla demonio, telefonava al criminologo chiedendo
aiuto e poi in un crescendo di disperazione voleva fuggire subito, la
supplicava di seguirlo e al suo fermo diniego, per rabbia, si puntò un coltello
al cuore. Era tanta la foga che la lama penetrò più a fondo di quanto voluto.
Lei cercava di tamponare la ferita, lo accompagnò in camera... Ma lui scappò
via.. non lo vide più... Non immaginava che il rimorso lo avrebbe vinto e che
la sua fuga si sarebbe ridotta alla sua chiesa, al confessionale... Si asciugò
le lacrime e decise! Tornò alla caserma e ai due inquirenti, ancora immersi
nell'esame dei documenti di causa, e stupiti per la sua inaspettata
apparizione, raccontò di Marino e di tutte le sue doti per far felice una donna
e chiarì il mistero di una morte impietosa.
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