di
Giovanna Vannini
Se ero entrato in un sogno desideravo restarci, se
ero sveglio e l’immaginazione mi stava giocando uno scherzo, avrei preso
provvedimenti. Ma dopo. Mi guardai intorno, ma non scorsi sulle facce degli
altri clienti seduti ai tavolini del caffè Ribò, né sui passanti di fretta o in
flemma attraversanti la piazza, lo stupore che di certo si mostrava sulla mia.
Controllai com’ero vestito, per verificare se gli abiti indossati al mattino erano immutati: camicia di lino color carta da zucchero, stropicciata quanto deve per un vero estimatore del tessuto quale ero io, jeans leggeri, blu sbiancato, vita bassa e gambale stretto, ai piedi, senza calzini, un paio di mocassini scamosciati color sabbia. Sul tavolino, accanto ad aperitivo e stuzzichini vari, il tablet, connesso sulla mia pagina facebook, nella tasca destra dei pantaloni il cellulare. Ogni cosa e genere umano era al suo posto. Io in passato. Che anno era? Che giorno? Che ora? Quanto tempo era trascorso da quel prima che adesso più non sapevo quanto prima fosse stato?
Controllai com’ero vestito, per verificare se gli abiti indossati al mattino erano immutati: camicia di lino color carta da zucchero, stropicciata quanto deve per un vero estimatore del tessuto quale ero io, jeans leggeri, blu sbiancato, vita bassa e gambale stretto, ai piedi, senza calzini, un paio di mocassini scamosciati color sabbia. Sul tavolino, accanto ad aperitivo e stuzzichini vari, il tablet, connesso sulla mia pagina facebook, nella tasca destra dei pantaloni il cellulare. Ogni cosa e genere umano era al suo posto. Io in passato. Che anno era? Che giorno? Che ora? Quanto tempo era trascorso da quel prima che adesso più non sapevo quanto prima fosse stato?
Sei fanciulle, davanti a me pochi metri di
distanza, distanti a me per tempo di provenienza, ammiravano il mare dalla
balaustra, si sorridevano le une con le altre. Indossavano gonne vaporose che
toccavano terra e camicette accollate dalle maniche lunghe e i polsini stretti,
sopra i capelli sciolti o in treccia, cappellini di paglia adornati con nastri.
Soltanto due di loro, forse le più ribelli, indossavano al posto delle sottane
dei calzoni stile zuava e un gilet di foggia maschile sopra la camicia come le
altre. Quell’immagine, di cui mi stavo sempre più convincendo fosse solo mio
speciale appannaggio, sembrava una tela sfuggita alla cornice, un dipinto in
carne, da potersi attribuire al pennello di un Corcos o di un Boldini. Il primo
mi parve più idoneo.
Imbambolato dal quel quadro vivente in movimento,
smisi di farmi domande, evitai le risposte se c’erano, godetti: punto e basta.
A esser sincero provai a coinvolgere in quella mia visione esclusiva il
cameriere di servizio ai tavoli, gli feci cenno con la mano, lui si avvicinò
solerte e prima che pronunciasse la canonica frase: “Mi dica Signore desidera
altro?”, cercai con un ammicco di occhi e sopracciglio di invitarlo a girarsi
insieme a me verso il mare, di lasciarsi meravigliare dove io meravigliavo,
rapire dove io già ero in osteggio. Ora anche le voci squillanti e civettuole
delle sei creature, musicavano nelle orecchie. Il cameriere, con fare
interrogativo nella sua compostezza dovuta al ruolo, senza nulla dire fece
intendere che non vedeva e non capiva, alzando appena un poco le spalle,
accennando un mezzo sorriso di circostanza.
Ordinai un altro aperitivo che mi accompagnasse con
altri stuzzichini diversi da quelli precedenti possibilmente. Tacqui. Mi
prese la fregola di alzarmi, di andare incontro alle fanciulle. Lo pensai, lo
feci, non ebbi tempo. Il tempo tornò nel mio tempo, loro tornarono nel loro. Fu
vuota la terrazza sul mare si fecero più spuma le onde che sotto s’infrangevano
e una scia di tuberose non volle mescolarsi con l’odore di salsedine. Per mia
fortuna. Rimasi immobile, tra gazebo, tavolino, piazza, terrazzo. Il
cellulare vibrò nella tasca. “Signore? Signore? La sua ordinazione”.
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