di Giovanna
Vannini
Dondolò sui tacchi, troppo alti per una pausa caffè
di metà mattino, poco adatti al suo passo, con quelle sue ginocchia che
anticipavano il resto e il busto che a scatti le seguiva. Lasciò il bar, non si
voltò. Per la prima volta da quando ci conoscevamo, non mi sembrò nulla di che
e rimasi perplesso dell’averla ritenuta affascinante e desiderabile.
Ci frequentavamo da un anno, mi faceva sangue, riuscivamo, senza troppi sforzi, a condividere anche dei momenti, rari a dire il vero, di sola cerebrale intesa.
Ci frequentavamo da un anno, mi faceva sangue, riuscivamo, senza troppi sforzi, a condividere anche dei momenti, rari a dire il vero, di sola cerebrale intesa.
Ma quel giorno davanti a quel caffè fatto a regola
d’arte mi accorsi che da troppo tempo non mi soffermavo più sui particolari.
Abbassai lo sguardo, misi bene a fuoco la tazzina che avevo lì davanti. Era
bianca di porcellana finissima, così diversa da quelle solitamente servite nei
bar, che azzardai a pensare fosse stata presa in prestito dal servito buono di
famiglia dei titolari del locale. Il piattino su cui poggiava era grande, tanto
da contenere la tazza al centro, da ospitare intorni a quella un paio, o forse
tre, di quei biscottini secchi che bene si accompagnano con il gusto cremoso
dell’espresso. Un rigo color platino di tre millimetri circa, bordava il
piattino, mentre un altro del medesimo colore ma un poco più spesso ne
delimitava il centro, su cui poggiava la tazza con le stesse rifiniture. Alzai lo sguardo, di lei non c’era più traccia. Nessun
particolare di lei mi tornò a memoria.
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