di Paolo Brondi
Non lontano era il podere dello zio,
fratello di mio padre, e da lui ero frequentemente ospitato, durante l’estate, a
coronamento della promozione da una classe all’altra. Nell’aria quiete e serena
della campagna era tutta una festa di voli, di luci, di strilli. Costretto per
lunghi mesi a star chiuso in un’aula, non resistevo più alla voglia di correre
folleggiando libero per i campi, di fare scorpacciate di frutti e poi quando mi
sentivo stanco, di distendermi lungo gli argini di un fiumicello dove l’erba
discendeva verde, disseminata di fiori, fino al pelo dell’acqua.
Al mattino mi svegliavo al coro gioioso dei passeri che levavano nell’azzurro terso del cielo i loro gorgheggi, agili, modulati, tutti cadenze e riprese, tutti sonorità argentine, soste improvvise, ritorni melodiosi. Pareva allora che una forza magica mi spingesse a saltare giù dal letto, per spalancare la finestra e respirare l’aria sana di vita che si sprigionava da ogni zolla feconda, da ogni ciuffo d’ erba scintillante di rugiada, da ogni ramo che sfoggiava, proteso al sole, la pompa delle sue foglie lucenti e dei frutti vellutati.
Al mattino mi svegliavo al coro gioioso dei passeri che levavano nell’azzurro terso del cielo i loro gorgheggi, agili, modulati, tutti cadenze e riprese, tutti sonorità argentine, soste improvvise, ritorni melodiosi. Pareva allora che una forza magica mi spingesse a saltare giù dal letto, per spalancare la finestra e respirare l’aria sana di vita che si sprigionava da ogni zolla feconda, da ogni ciuffo d’ erba scintillante di rugiada, da ogni ramo che sfoggiava, proteso al sole, la pompa delle sue foglie lucenti e dei frutti vellutati.
Quante
volte sgusciavo via dal letto appena i galli, da un pollaio all’altro, facevano
a gara nell’emettere i loro chicchirichì! Poi via, ad assistere all’opera lenta
e laboriosa dei buoi condotti al lavoro dal vecchio fattore, Oreste, e alla
sudata fatica dei suoi figli che strappavano tesori immensi alla terra. “Vieni…
vieni a provare – mi diceva -come si scava la terra e si getta il seme!”. Mi
aiutava ad afferrare la vanga, ad affondarla per formare solchi e tutte quelle
operazioni mi rendevano assai più felice di quelle scoperte sui libri di
scuola. Spesso, in giornate ventose, salivo fin quasi sulla cima del mio albero
preferito, un grande noce, affidando allo stormir del vento i miei sogni. Le
gote rosse, capelli scompigliati, calzoni rattoppati, mi facevano un monello…e
ogni mio pensiero era sciolto nel chiaroscuro delle nuvole o affidato alla
culla delle foglie scosse dal vento.
Talvolta
mi divertivo a catturare una fremente cicala. Taceva di colpo quando la portavo
giù, per meglio osservarla, per accarezzarne la coda in attesa di un rinnovato
canto. Rimanevo deluso e la malinconia di un suono non più appagante mi
spingeva a riappoggiare la cicala al tronco. Se non cantava, la riportavo in
alto verso un poco più di azzurro. La cicala, in questo turbinio di movimenti,
non riusciva a riporsi subito in sintonia con le compagne e se ne stava
immobile e muta. Allora, seguivo altri impulsi, altri giochi. Nel tepore della
sera mi ritrovavo ad osservare l’immensa volta celeste, soffusa tutta di un
manto di stelle, palpitanti e tremule, mentre il blando candore lunare pioveva
sui monti lontani inondando la pianura e avvolgendo carezzevole tutta la
natura. In queste scorribande mi era vicino Roberto, un buon contadinello,
bruno e forte, che conosceva tanti segreti sugli orti e sugli animali, ma non
sapeva distinguere un congiuntivo da un condizionale. Era nipote di un
agricoltore benestante, proprietario di terre confinanti con il podere di mio zio
ed aveva una madre ancora giovane e bella. Spesso lo correggevo perché,
compagno di scuola fin dalle elementari, ancora alla vigilia del quarto
ginnasio, ricadeva negli stessi errori.
Nella
quinta cambiammo maestra. Castigava i negligenti, ma premiava i buoni e ben
presto tutta la classe si trasformò qualitativamente: non c’era più un
negligente ma tutti, più o meno faticosamente, erano diventati buoni. Allora la
maestra portò in classe tanti libri belli e interessanti fra cui “La capanna
dello zio Tom”: leggendo queste pagine non ce la faceva a contenere le lacrime
e in classe non volava una mosca…La commozione prendeva ciascun alunno e, senza
parole né sforzo, la loro mente imparava la differenza fra il bene e il male.
Roberto faticava nel raggiungere la promozione da una classe all’altra, ma la
sua volontà e il desiderio di non staccarsi dall’amico, da me, gli permettevano
sempre di ribaltare insufficienze negli ultimi mesi di scuola e di ottenere gli
sperati giudizi positivi. In quelle estati vivevamo le stesse esperienze e le
varie suggestioni offerte dalla natura e dai viventi. Talvolta ci trovavamo ad
ammirare, con pari sentimenti, i vezzi e la vocina della piccola Giovanna,
figlia minore dello zio, che non si stancava di cinguettare con note armoniose,
trotterellando nella vasta aia, di fronte alla masseria, e verso la quale
Roberto nutriva un nascente sentimento, non solo amicale.
Quante
corse a rimpiattino, quante capriole insieme facevamo nella stagione della
mietitura, quando il grano steso sull’aia diventava un tappeto dorato, lucente
sotto il sole del giorno e illuminato all’imbrunire dalla luce rosseggiante del
tramonto! Ci giocavamo intorno e sopra mentre i contadini ballavano al suono
struggente delle fisarmoniche. Quando si faceva notte, il divertimento era quello
di rincorrere le lucciole che brillavano qua e là sopra le erbe del giardino
fino a catturarle, chiudendole un poco nel pugno per poi rimetterle in libertà.
“Giorgio…Giorgio – ripeteva Giovanna- guarda ho due lucciole nella mia mano e
tu quante? Corriamo ...ne prenderemo tante altre…!”. Roberto, un po’
immusonito, perché non veniva così spesso invocato…aggiungeva “Ne ho anch’io
tante…vieni a vedere… Giovanna…”. Poi, quando la brezza di quasi mezzanotte
lieve accarezzava il nostro volto, scompigliava un poco i capelli, sembrava
dicesse, col soffio leggero, grandi cose: portava l’eco di canzoni lontane, di
ninna nanna, dolci e piane che, udite da bambini e custodite in fondo al cuore,
affioravano tutte le volte che l’immensità del creato ci affascinava rendendoci
straordinariamente silenziosi.
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