La Sardegna ha conservato, per il culto dei morti, una antica festa che ricorda Halloween. I bambini vestiti da fantasmi bussano alle porte delle case
chiedendo piccoli doni in cambio di preghiere. Tutti aspettano
questa ricorrenza preparando i dolci tradizionali
di Bianca
Mannu
(Introduzione di Angelo Perrone)
(ap) La sensazione più acuta è un’immersione
in un mondo lontano e ben poco conosciuto, quello di alcuni piccoli paesi della
Sardegna. Il tempo e lo spazio marcano una distanza rispetto alle abitudini di
oggi. Anche la stessa lingua italiana ha una corposità dal forte sapore antico,
lo stile del racconto è talvolta arcaico per l’uso di espressioni che rinviano
ad un altrove poco consueto (“in panciolle”; “rettangoli di sole che fanno
civetta” tra i vetri).
Il costrutto delle parole sollecita immagini
delicate di vita povera e minuta (scaldare una “minestra di sola acqua calda”;
rubare alle vespe “racimoli e sarmenti”; cogliere “cespi di barba di becco”,
depositare “sacchi pieni di ramaglie”).
Ma il mondo proprio di alcune zone sarde, come
rivissuto nei ricordi di bambina, non è per nulla triste: si prova allegria di
fronte a piccoli avvenimenti quotidiani, legati alla scoperta delle meraviglie
della natura nelle diverse stagioni (gli alberi in autunno sono “così carichi
di corbezzoli rossi”, “così turgidi e carnosi, da innamorare”).
Il merito di tanta vitalità ancora una volta è
dei giovanissimi, pronti a stupirsi di fronte agli insegnamenti dei maestri di
scuola (“ci incantavamo sulla pagina della lettura”) e a interpellare i più
anziani del paese sui segreti della campagna e della vita stessa (L’anziano
raccomandava: “Devi entrare tra le siepi, senza troppo sfrascare”).
Alcune intraducibili espressioni
sarde però custodiscono la sorpresa più stupefacente, la memoria di
un’antichissima festa per celebrare il culto dei morti. Chiamata con diversi
nomi nelle varie zone dell’isola, is
Animeddas e is Panixeddas nel
sud, Su ‘ene ‘e sas ànimas o su Mortu Mortu nel
nuorese, su Prugadòriu in Ogliastra; sempre ad indicare i “panini
dei morti”, cioè piccoli regali per i defunti.
I
bambini, vestiti da fantasmi, girano di porta in porta chiedendo piccoli doni e
promettendo in cambio delle preghiere per ricordare chi ci ha lasciato. I più
furbetti sanno scegliere le mete migliori, andando “dove c’è buon odore”.
E’
comune che, alle richieste dei piccoli, gli adulti si preparino per tempo e
siano pronti a regalare i dolci tipici
del periodo: pabassinas, ossus de mortu,
pani de sapa,
o appunto panixeddas, termine
di origine spagnola ad indicare piccole offerte. Oppure, proprio come per la
festa di Halloween, svolgano un lavoro
certosino sulle zucche trasformate in facce spiritate ed utilizzate per
fare scherzi e spaventare i più piccoli. E’ tradizione che la tavola rimanga
apparecchiata per i defunti tutta la notte come le credenze, aperte perché i
morti possano cibarsi.
Un rito antico, dai tratti così simili alle usanze dei nostri tempi, con radici in molte culture europee ed occidentali. Le distanze si annullano, dal passato al presente, da un luogo ad un altro. In questi giorni, se suona il campanello di casa, possiamo chiudere gli occhi per un momento e lasciarci andare all’immaginazione: sono “piccole anime” che vengono a chiederci, con disincantata ingenuità, qualche piccolo dono e noi proviamo uno stupore che ci fa tornare bambini.
Un rito antico, dai tratti così simili alle usanze dei nostri tempi, con radici in molte culture europee ed occidentali. Le distanze si annullano, dal passato al presente, da un luogo ad un altro. In questi giorni, se suona il campanello di casa, possiamo chiudere gli occhi per un momento e lasciarci andare all’immaginazione: sono “piccole anime” che vengono a chiederci, con disincantata ingenuità, qualche piccolo dono e noi proviamo uno stupore che ci fa tornare bambini.
Correndo il tempo dell' autunno verso
il proprio cuore, mi è tornata in mente l'atmosfera che si viveva da bambini
nel paese.
Certi mattini nascevano imbronciati,
col cielo basso e un velo di nebbia che fasciava a nord le montagne. Poi, più o
meno come oggi, la nebbia si dissolveva verso l'alto e il sole tornava a
brillare.
Molti di noi avevano condotto i loro
pidocchi a scuola. E intanto che ognuno aspettava il proprio turno di lettura,
rabbrividendo per l'immobilità e per il languore chiassoso dello stomaco,
spingeva lo sguardo immelanconito di desiderio verso gli ampi rettangoli di
sole che sembravano fuggire a posta gl'immensi finestroni dell'aula per far
civetta verso noi prigionieri.
Altri,
grandi e piccoli, chi sa?, più sfortunati,
avevano sforato per tempo la cortina della nebbia ed erano già sui monti dietro
le bestie o a far legna; e si sarebbero scaldati più col peso del sacco a
frontale che stando in panciolle al sole.
«Muoviti, non restartene lì
imbambolato! – grida spazientito un babbo al ragazzino assonnato. – Sai bene
che di questa stagione il pomeriggio è breve, il sole si ritira presto e arriva
il freddo. Bisogna procurare legna o qualsiasi cosa accenda un po’ di fuoco per
scaldarci e mettere allo spiedo … una minestra, magari di sola acqua calda, per
ammansire la pancia».
Questi di sicuro erano i più poveri e
i più affamati. La loro giornata era fatta di parecchie puntate nei diversi
siti della campagna.
Si era smesso da un po' di perlustrare
senza esito le vigne rosse e brune per rubare alle vespe gli ultimi racimoli e
qualche sarmento, dimenticato a posta dai braccianti, o abbandonato dagli
stessi proprietari per incuria.
Deposti i sacchi a cappuccio pieni di
ciocchetti e ramaglie di lentisco, di olivastro, di ginepro secco, si correva
per prode e fossati a cogliervi i cespi di barba di becco, di cicerbita, di
nasturzio, di lattugaccio, companatici del mezzodì, perché questo è il pranzo
di sa die de fattu (dei giorni
feriali).
In campagna, di questa stagione, si sa
che ci sono alberi carichi di corbezzoli rossi, così turgidi e carnosi da
innamorare.
«Ma, guai se te ne fai una spanciata!
Diglielo, racconta a tuo fratello lo scherzo che ti fanno alle budella»,
insiste canzonatorio l’anziano di casa.
Dunque, una volta scaricato il sacco
di legna, si fa un salto indietro sui siti degli uliveti per notare se fra i
rami si scorge qualche oliva matura.
«Devi cercare una breccia tra le
siepi ed entrare di nascosto e se s’è fatto buio» - insiste il vecchio. «Devi entrare senza troppo sfrascare e solo
allorché i barracelli si son bell’ e ritirati. Nel frattempo sarà bene che uno
di voi stacchi verso il brado di costa per ricuperare un cestino o due di cuguzzulas
(carciofini selvatici) e cardo molentino.
Intanto
noi scolari, nel chiuso addiaccio dell’aula, c’incantavamo sull’immagine
monocroma e dilavata di un cimitero, stampata a commento del “La leggenda del
crisantemo” sulla pagina in lettura. Oppure ripetevamo, senza ben capire, “La
nebbia agl’irti colli” …
«Che cos’è aglirticolli?
Piovigginando sale …?»
«Dunque
ci sono posti dove piove sale! Ma non qui; io
non me ne sono mai accorta!”
Spendevamo così
le semiconsapevoli giornate scolastiche.
E sul finire
d'ottobre, sciamando da scuola nella piazza ventosa, annusavamo gli aromi della sapa cotta, dell’uva passa e delle
papassinas, degli “ossi di morto” (amaretti biscottati), delle mandorle tostate
e zuccherate … Dolci e bonbon, piccoli pani per le anime!
«Oh, sì – mi soffiava nell’orecchio Mariuccia – a giorni è la festa de Is
panixeddas. E io non me la perdo. Prendo la “coscinera” più grande e vado a
bussare dove c’è buon odore! E tu?»
«Beata e fortunata te! Mia mamma non mi dà il permesso. “Se ti muovi, t’azzoppo”,
mi ha detto. “Ma perché? “– ho provato a chiedere piagnucolando … M’è arrivato
un manrovescio.
E
qui, mi son taciuta, perché non ho voluto dire a Mariuccia che andare per
Panixeddas era una roba da poveri troppo poveri. E noi eravamo poveri, sì, ma
non abbastanza da superare la vergogna dell’accatto, almeno dal punto di vista
materno.
Invece
Mariuccia, tutta infervorata, mi comunicava che tra due giorni lei con la sua
coscinera avrebbe battuto tutto il paese gridando per la festa de is animas: Is panixeddas, biancas e nieddas, e puru
arrubiasteddas! (panini dolci dei morti, bianchi neri e perfino rossicci)
Infatti
il due di novembre frotte di bambini muniti di sacchetti bianchi
battevano le strade fumose del paese, si affacciavano alle porte semichiuse e
chiedevano: “O sa tzia, mi d‘as fait is panixeddas?
Qualcosa
arrivava, se non dolci, almeno mandorle, castagne, fichi secchi. Altro che «o dolcetto o
scherzetto» d’importazione!
Ma mi
venga un accidente se la scuola di allora, quella ancora traboccante di
romanità e di patria, abbia speso una sola parola sul senso di quel felice
residuo plebeo di antica fede pagana.
Il
dopo ci ha imposto Halloween! Ma io insisto: bonas panixeddas a totus!
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