Crisi del governo Draghi, tra riforme urgenti e vuoto politico
(Angelo Perrone) Il ghiaccio della Marmolada si scioglie, e chissà quanti altri ghiacciai potrebbero cedere. Il fuoco ammorba l’aria di Roma e non intimorisce i cinghiali, liberi di vagare in mezzo ai rifiuti. L’inflazione è a ruota libera, basta fare un giro nei supermercati.
Avevamo 36 anni di meno quando l’aumento dei prezzi era all’8%, molti non c’erano nemmeno e non possono ricordarselo, gli altri fanno finta di non averne sentito parlare.
L’afa africana non dà tregua, né induce a più miti consigli, dobbiamo graduare l’aria condizionata per avere un po’ di sollievo senza far soffrire pure la tasca, in autunno però saranno dolori seri, dovremo vedercela con il ritorno del freddo. La riduzione del gas russo inciderà sulla borsa, avrà conseguenze meno tollerabili sull’economia, domestica e nazionale.
La recrudescenza del virus imporrebbe subito la quarta dose di vaccino, e molta prudenza. Distanze e mascherine ancora una volta, se non vogliamo ammalarci e rischiare la terapia intensiva. Ma dopo anni di sacrifici, non se ne ha gran voglia.
La guerra in Ucraina è diventata una costante della cronaca, fa parte del quotidiano, è una sorta di abitudine confinata alle pagine interne dei giornali, sopraffatta dalle novità e dall’abitudine. Riemerge non per la recrudescenza degli episodi di violenza, ma per brevi notizie o piccoli aggiornamenti, che, se non fosse oltraggioso, definiremmo “di colore”.
Il lungo elenco non è frutto della lente deformante di inguaribili pessimisti. I soliti scontenti a cui non va mai bene nulla. È il quadro delle emergenze attuali, che si sommano o alternano. Sollevano problemi economici, sociali, militari. Suscitano preoccupazione e paura.
La tempistica dei provvedimenti necessari per tenere il passo del Piano nazionale di ripresa e resilienza è, ancor più, confinata nel limbo delle cose da fare, ma a tempo debito, senza affannarsi. Non parliamo della legge di bilancio in scadenza a fine d’anno, senza la quale l’esercizio economico statale sarebbe provvisorio.
In questo contesto, infuocato non solo per il caldo, il dibattito politico si è acceso ancora di più sull’onda del dinamismo grillino stile Giuseppe Conte, quasi un ossimoro. In fretta, alla faccia del rinnovamento della politica, sono riemersi concetti e schemi che sembravano tramontati, tanto erano obsoleti, perché fallimentari.
Ecco la “non sfiducia”, per segnare smarcamenti di posizione, azzardati nella sostanza e incoerenti, ma non importa quando manca il coraggio dei gesti; la “verifica”, per fare il punto delle situazioni traballanti. Infine il famigerato “rimpasto”, alla fine non sarà mica una questione di posti e basta?
Le solite poltrone in più o meno, ora che Di Maio con la scissione se n’è portate via un gruppetto aprendo falle nella rappresentanza 5 Stelle? C’è la voglia di maggiore potere per darsi più lustro da contrabbandare come risultati dell’azione politica?
Le ipoteche estremiste, per quanto improbabili per natura (Conte nei panni di Di Battista con la pochette?), sono in sé irragionevoli. Come è possibile dissociarsi da provvedimenti, come il decreto “Aiuti”, che mira a ridurre le difficoltà economiche di individui ed imprese?
Ci si interroga in proposito sul ritorno del populismo, l’idea irriducibile di semplificare ciò che è complesso, di procedere alla svelta in ciò che richiede fatica e tempo, e magari qualche compromesso, opportuno e giustificato. Lo abbiamo visto all’opera il populismo in salsa gialloverde, straordinaria combinazione grillina e leghista. Così confuso, velleitario, disordinato. Rimane tentazione irresistibile.
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