(Robert Capa) |
di Marina Zinzani
Omaha Beach, Normandia. È il 6 giugno 1944 e Robert Capa, fotoreporter della rivista Life, è al seguito dei soldati americani.
Ha il compito di fotografare lo sbarco, di consegnare alla memoria le immagini di quell’evento destinato a cambiare le sorti della Storia.
I soldati americani attorno a lui muoiono uno dopo l’altro, è un’ecatombe, è l’inferno. Lui continua a fotografare, le foto arriveranno a noi sfuocate, e saranno solo 11. Il resto andrà perduto, per un errore di chi doveva svilupparle.
Quelle foto rimaste, così preziose, possono solo suggerire quello che accadde, il terrore dei giovani falcidiati dalle mitragliatrici tedesche, l’acqua del mare diventata rossa per il sangue, il mare che restituiva i corpi mutilati sulla spiaggia. Migliaia di vite spezzate per liberare l’Europa dai nazisti.
Si possono leggere quelle immagini come se fossero dei video, come se si udissero le urla strazianti di chi nel giro di pochi secondi perdeva tutto: una famiglia, un amore, i propri sogni.
Cosa rimane di quei ragazzi andati a morire, oltre alle migliaia di croci bianche al cimitero? Si possono percepire i loro ultimi pensieri, quel sentirsi così piccoli, impreparati di fronte al nemico e impreparati a morire. Non si è certo preparati a morire così giovani, anche se si è in guerra.
Quando la democrazia sembra qualcosa di sbiadito, quando la parola libertà appare inquinata dalla retorica, quando i discorsi, tanti discorsi, inutili discorsi, sembrano sommergere tutto, bisognerebbe ricordare quei ragazzi che con il loro sacrificio hanno permesso a noi una vita migliore.
A loro, forse anime inquiete che vagano ancora su quella spiaggia, accarezzate dal vento, dovrebbero andare i nostri pensieri nelle giornate buie, e ricordarci della preziosità della vita, ancora nelle nostre mani. Quei ragazzi quella preziosità l’hanno perduta a 20 anni.
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