Milano |
(ap) I “racconti del sabato”: una
giornata della settimana, occasione di un racconto. E’ un momento particolare,
spesso infarcito soltanto di maggiori impegni, faccende di casa, per una donna.
Da trascorrere correndo, con le ore ancora una volta contate, insufficienti.
Un tempo per fare ciò che si è
rimandato in attesa di trovare spazio tra le proprie cose, oppure, invece, per
dedicarsi a qualcosa di piacevole, divertente; leggere un libro, guardare un
film, uscire con amici di vecchia data. Trovare pace e serenità, piccoli
piaceri. Accade anche di non fare nulla, guardarsi intorno in casa, fare una
passeggiata. In compagnia dei propri pensieri.
“Frida”è una donna in età non più
giovanile, che tuttavia riesce a cogliere piccole gioie, quelle che la vita
riserva a chi ha ancora voglia di scoprirle. Il segreto è uno solo: che il
pessimismo non prevalga sull’entusiasmo. Che non si guardi ai capelli grigi che
cominciano a spuntare, alle rughe che appesantiscono il volto. Che non si ceda
all’oblio delle emozioni.
Segni dell’età certo, ma di per sé
neutri, che non devono soffocare il desiderio di scoprire qualcosa di nuovo,
mai visto, mai gustato davvero. Nelle strade della città attraversate mille
volte di fretta, nei mille luoghi dove è possibile coltivare benefici riti
quotidiani con i loro piccoli e delicati piaceri. Dal caffè della mattina nel
bar preferito alla visione stupefacente del risveglio cittadino con tutti i
suoi sottili rumori, alle preziose pagine del quotidiano appena uscito.
E’ il sapore gradevole di alcuni
istanti particolari, magari nelle prime ore del sabato, quando si ha più tempo
per sé. E la città si offre a noi con disincanto. Quando si riesce a vedere
meglio quelle cose che sono disseminate ovunque e spesso sono oscurate dalla
fretta e dallo scoramento.
di Marina Zinzani
Avere tanti anni dentro e non
sentirli, cogliere la bellezza di un momento, un film che commuove, una musica
che trascina il cuore, sentirsi una ragazzina nell’entusiasmo per una nuova
cosa, godere del mattino e delle sue promesse. Nonostante gli anni, sì,
nonostante i capelli grigi.
Avrebbe potuto tingerli, Frida,
l’aveva fatto per qualche tempo, quando i primi capelli bianchi erano apparsi a
ricordarle un’ora, un appuntamento: era arrivata l’età matura, il declino
forse?
Si sentiva vitale, piena di
interessi e per niente una donna di mezza età, e i capelli non rappresentavano
un bel niente, li avrebbe tenuti così, con i fili bianchi e grigi, raccolti
ogni tanto con un chignon e un bel fermaglio di madreperla, il viso in fondo
era rimasto giovane, poche rughe, il corpo sottile, non era mai ingrassato
negli anni.
Zaino in spalla, percorreva le
strade di una Milano mattutina e dormiente, era quella l’ora giusta per
assaporare appieno la bellezza della città nelle sue forme più nascoste e la
vita, quella dei profumi del caffè, dei rumori familiari, come la tazza
ritirata dal bancone del bar e appoggiata sul lavandino, il contenitore del caffè
sbattuto per liberarsi della miscela precedente, il far venire altro caffè che
si trasformerà, mediante la macchinetta, in un liquido caldo, corroborante la
mente, accompagnatore delle prime ore del mattino.
Il mattino del sabato offriva
sottili piaceri, il catturare il rumore della saracinesca che si apriva, la
nuova vetrina, i vestiti, i vestiti, quanti vestiti nei negozi del centro,
quante borse, le ragazzine e lo shopping, il sabato pomeriggio era tutta
un’altra cosa, non c’era l’anima della città in dormiveglia, era una miriade
infinita di voci e persone, come un ottovolante, c’era la corsa, la
destinazione.
Invece il sabato mattina presto,
poco dopo l’alba, la meta era ambigua, i piedi andavano, quasi come fossero
entità a sé, e decidessero, come bambini, di correre da una parte o dall’altra.
Arrivare al Duomo e coglierne ogni
volta un particolare, cose che nessuno vedeva, solo l’insieme si vedeva, bello,
bellissimo, ma quella guglia, quel ricamo no, non ci si soffermava a vederli,
solo qualche turista lo faceva.
E poi, alla fine della camminata per
le strade semideserte della città, l’arrivo al suo bar preferito, e lì la
consuetudine che somigliava al piacere, e il piacere era come un rito: la brioche,
il cappuccino, il giornale. Tutto fresco, la pasta fragrante, i granelli di
zucchero che si scioglievano in bocca richiamando infinite sensazioni che
suggeriva lo zucchero, lo zucchero fa male, lo zucchero fa male si diceva, ma
la brioche con i granelli di zucchero portava a certe vette, momento irrinunciabile
della mattina.
E poi il giornale, l’appuntamento
quotidiano con il mondo, il polso della situazione, la realtà: pagine sfogliate
in fretta, cronaca che irrompeva con il suo assurdo, spesso, su cui era
preferibile non soffermarsi. Più tempo invece per le pagine della cultura, per
quella degli eventi, che non mancavano mai: ogni settimana la ricerca di
un’emozione attraverso la musica veniva soddisfatta, in una chiesa, in un
teatro, al conservatorio, o veniva soddisfatto il desiderio di uno spettacolo
allegro, leggero, o che faceva riflettere, di un autore tanto amato. La musica
spesso l’attendeva, il sabato sera. Mozart, il suo preferito. Ma anche Bach.
Gli amici che avevano reso la sua vita migliore.
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