La morte di Indi Gregory, la bimba gravemente malata, interroga le coscienze
(Angelo Perrone) Indi Gregory era una bambina inglese di 8 mesi, affetta da una malattia rara e molto grave. È morta nella notte tra il 12 e il 13 novembre dopo che le sono stati staccati i supporti vitali. C’è stata richiesta dei medici per l’interruzione del trattamento e la magistratura ha dato l’autorizzazione, nonostante il parere contrario della famiglia.
Il caso ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica, soprattutto in Italia, a seguito dell’iniziativa di concedere la cittadinanza nel tentativo di facilitare il trasferimento della bimba al Bambin Gesù di Roma che si è offerto di accoglierla. Le eventuali terapie non sarebbero state decisive.
Il dibattito si è incentrato sul contrasto tra le ragioni delle decisioni giudiziarie e la volontà contraria dei familiari circa il mantenimento in vita della piccola in condizioni disperate. Si è così riaperta la discussione sul fine vita e sulle questioni etiche collegate.
La morte di Indi provoca costernazione, interroga la coscienza, e alimenta un senso di inadeguatezza rispetto a quesiti estremi.
Indi, nata al Queen's Medical Center di Nottingham, nel Regno Unito, il 24 febbraio 2023, non ha mai lasciato l’ospedale, restando sempre in terapia intensiva sino al trasferimento nell’hospice (struttura apposita per malati terminali) dove è avvenuto il distacco dalle macchine che la tenevano in vita.
Era affetta da sindrome da deplezione del Dna mitocondriale. Significa che le cellule non producono abbastanza energia e ciò impedisce all’organismo di svilupparsi, compromettendo organi vitali, soprattutto il cervello e il cuore. La patologia è incurabile e porta rapidamente alla morte.
L’ospedale ha chiesto all’autorità giudiziaria, nel dissenso dei genitori, di autorizzare il distacco delle macchine sulla base di due considerazioni, l’impossibilità di guarigione e l’insopportabilità fisiologica, a lungo termine, del trattamento mantenitivo.
Scrive il giudice dell’alta Corte d’Inghilterra e Galles, il 13 ottobre: «Con molto rammarico, sono giunto alla conclusione che il fardello del trattamento invasivo ne superi i benefici. In breve, la significativa sofferenza provata da questa adorabile bambina non è giustificata se confrontata con una serie di condizioni incurabili, una durata di vita molto breve, nessuna prospettiva di recupero e, nella migliore delle ipotesi, un'interazione minima con il mondo circostante».
I concetti sono chiari: «Ella sperimenta dolore e sofferenza significativi più volte al giorno, ogni episodio doloroso dura fino a dieci minuti. Le descrizioni di lei che sussulta, fa fatica a respirare, ansima e ha le lacrime agli occhi sono vivide. Tale dolore le è causato dai molteplici interventi terapeutici. Esso continuerà finché proseguiranno questi interventi».
È evidente l’approccio. C’è un sistematico riferimento, duro da comprendere e condividere, al best interest of the child, il “miglior interesse del bambino”. Non è nell’interesse del bambino proseguire le terapie, se non c'è alcuna possibilità di miglioramento né di cura, e la sofferenza è destinata solo ad aumentare. Dunque, da ultimo, la morte – in casi come questo – corrisponde all’interesse migliore dell’essere umano.
L’intollerabilità di tale conclusione è percepibile nei commenti dei genitori, straziati da infinito dolore. «Siamo arrabbiati, affranti e pieni di vergogna», dice il padre all'agenzia Lapresse. Qui il tema non è la ricerca della terapia migliore, non si controverte su cosa sia meglio fare per dare la guarigione al paziente o eliminarne la sofferenza. L’orizzonte dei pensieri è solo la sopravvivenza o meno del soggetto in quelle disperate condizioni, e di riflesso la capacità di lasciarlo andare al suo destino, il coraggio di dire addio ad un figlio così piccolo.
Le parole pronunciate dai familiari per opporsi ai giudici inglesi sono incentrate su un solo concetto, il diritto alla vita, rivendicato per sé stessi come genitori e in nome del paziente privo di coscienza. Un diritto assoluto e non negoziabile, opposto alle ragioni di medici e giudici, così esile e fragile di fronte all’obiezione: che vita è questa vita?
La vita di cui si discute è una frazione di tempo strappata al destino crudele, da vivere in condizioni precarie, verosimilmente nella sofferenza, e con un altro peso da sopportare, quello della colpa per averla trattenuta. Qualcosa che ha la sembianza esteriore del regalo al paziente e ai genitori, per ripetere il mistero dell’amore: una carezza, uno sguardo, un pensiero, forse solo l’illusione di continuare a rivolgersi alla persona cara.
Il ricorso alla magistratura compendia l’intento apprezzabile di muoversi con quella lucidità che non è esigibile da genitori affranti e disperati. Alla base di tutto, c’è la necessità di vivere la genitorialità attraversando la prova della distanza emotiva, perché anche l’amore può indurre ad errori. E tuttavia la morte di Indi segnala che il bilanciamento di esigenze ed interessi, come brutalmente si dice, è un obiettivo impossibile. Non c’è una “migliore soluzione” che salvi l’anima dal trauma.
Orientarsi in questa materia è un dilemma che non trova soluzioni rassicuranti: ci si dibatte tra dolori, amarezze e ricordi struggenti. Ognuno, con le domande che si accumulano senza risposta. A chi, la scelta estrema? Come decidere? La coscienza non riesce a uscirne. Avverte Ian McEwan, ne La ballata di Adam Henry, «Le religioni, i sistemi morali … erano come cime di una fitta catena montuosa osservate da una grande lontananza: non ne spiccava una sull'altra né per altezza, né per verità o rilevanza. A chi spettava il giudizio?».
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