La
vita è uno “stare in barca”, dipende da noi trovare la rotta e l’equilibrio. E
un po’ di serenità: come quando galleggiavamo in un’altra acqua. Nel ventre
materno
di
Cristina Podestà
(Commento a In barca, PL, 12/1/18)
La
metafora del mare e della barca è piuttosto diffusa nella letteratura, a
cominciare da Dante in tutte e tre le cantiche e relativamente a variegate
sfumature dell'essere: Caronte, l'angelo nocchiero, il secondo canto del
Paradiso; non sono che esempi di una molteplice trattazione del tema del mare e
della navigazione.
Joseph
Conrad dice una frase molto suggestiva, che riprende proprio la similitudine
della vita: "La nave dormiva, il mare si stendeva lontano, immenso e
caliginoso, come l'immagine della vita, con la superficie scintillante e le
profondità senza luce". Spesso è proprio cosi: la superficie è bella, solare,
scintillante appunto ma, se si va sotto e si guarda bene, c'è il buio più
profondo!
Vivere
è come stare su di una barca, in balia delle onde: si ammira tanta bellezza, si
sperimentano sensazioni fantastiche ma si sa che tutto è effimero, e sulla
imbarcazione ci sono esseri umani che trasportano in sé un intollerabile carico
di sogni, speranze, rimpianti o paure. La nave galleggia sulle onde increspate,
accarezzata da esse, e va. Va tra nuvole e cielo, tra una distesa di acqua e un
temporale, ignara del futuro come le genti che viaggiano ogni giorno nel mare
della propria sconosciuta esistenza, speranzose alcune, più turbate
altre.
Se
qualcuno riesce a concentrarsi solo sul battito dell'onda e si lascia andare al
rollio, si fa cullare come un bimbo nelle braccia materne, allora può aspirare
ad una condizione di serenità e accettazione delle incertezze; ma vi è, pure,
chi non riesce a rilassarsi e lo sciacquio è solo foriero di ansie. Eppure noi
veniamo concepiti nell'acqua e dall'acqua dipende la nostra sopravvivenza.
Dunque essa è la nostra prima madre e il suo rumore, il suo soffio, dovrebbe
assolutamente rassicurarci.
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